Vettriano

Vettriano

lunedì 9 dicembre 2013

09/12/13

"Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero di esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l'altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri."
▪ Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso.


Oggi vorrei poter dire, questo è il giorno della mia resurrezione, e per resurrezione intendo una specie di elevarsi al di sopra del resto, come scrollarsi di dosso lo strato di polvere consistente che abbiamo accumulato su di noi, colpevoli di non aver saputo fare pulizia da prima, e con queste vesti superiori vorrei poterti dire, si riparte da qui, senza che prima ci sia stato mai nulla, una vasta distesa di bianco che puo' essere un' alba, un tramonto, o una nebbia assoluta e perenne che non cela niente dietro di sé. Vorrei che fosse possibile perché di certo tutti i nostri giorni meritano la purezza che ci hanno sottratto troppo in fretta, avevamo tra le mani un frutto così maturo e sano e ce lo hanno portato via, tra le dita sono rimaste gocce di succo che poi è andato a male, e a sfamarci non è rimasto niente, se non spine di rose mai sbocciate, che rose poi neanche erano, ma foglie morte travestite da fiori. Invece non posso, non puoi, ci guardiamo rassegnati, stanchi, colpevoli, e senza soffrire ancora ce lo diciamo, non posso, non puoi, io sono questo, tu sei questa qui, e di miserie e di errori e di bruttezze ne abbiamo pur fatte e ancora di più subite, e ce le portiamo addosso come una crosta impossibile da rimuovere, sfrega pure quanto ti pare, niente di quello che è il nostro passato andrà mai via, e ci sono ore come queste, dove tutto sembra soffrire con noi, in cui uno specchio qualunque mi restituisce un' immagine insana, dove questa eredità di disaffezioni e di tormenti punge e pesa; punte di spillo e macigni insostenibili mi spezzano tutti i respiri, e l' ondeggiare del sogno nel reale rende la notte e la veglia insopportabili. Di tutte le porte che ti ho spalancato, questa proprio non si apre più, ed è un bene che non lo faccia, non cercare di entrarvi, amore mio, resta sempre sulla soglia, ti sussurro, dunque ti spingo via e ti tiro per un braccio, e nella corsa affannosa verso il più prossimo futuro mi imbatto nei tuoi demoni, stavolta, dopo essere riuscito a sottrarti ai miei, ma sono solo voci di fantasma, che svelano nuove menzogne, incredibili tradimenti, lacrime incandescenti, e allora corriamo ancora, contro la tempesta, come sarebbe bella una pagina nuova di un libro altro, ma nel grande vocabolario del mondo la parola della quale ci spetta scrivere il lemma è una soltanto, e sta in mezzo al rumore indistinto del chiacchiericcio inutile di ciò che si è stati.

L' inverno è la nostra stanchezza, lontane le nostre terre irraggiungibili e amate ci osservano mutare, ogni ora ci guardano soccombere, e ci sovrastano: come fossimo sulla sommità del nostro monte sterminatore in basso contempliamo religiosamente le città fumanti dopo l' incendio universale; fotografie, versi, gesti ridicoli, ossessioni, manie, tentativi, ridicolezze, pochezze, umiliazioni, coltelli tesi che amavamo conficcarci da soli nel ventre (e di cui restano i segni ancora sui palmi delle mie mani, perché mi accorgo oggi più di ieri di quanto il mio ventre sia troppo magro, troppo malato, per poter contenere cose, per poter sedurre, per poter essere vivo, e apprezzo che muoia, e io con lui, adesso, per sempre, forse), tutto brucia e il fumo che si leva dalle macerie informi arriva alle nostre narici col nome di giovinezza, e sul confine di questi anni io scivolo, e non vorrei mai tornarvi, oggi sono come qualcuno che viaggia dentro un vagone antico, e si vede divorare gli occhi da un paesaggio vuoto disegnato sul vetro del finestrino, sono quindi in treno, e ho al mio fianco tutte le valigie necessarie, e molti libri, e poca ma buona musica, qualche amuleto e parecchia folle speranza.
Se sto tornando a casa o sto fuggendo, questo non saprei dirtelo, ma se chiudo gli occhi mi vedo ancora indagare, scavare, aprire, voglio soltanto farmi male, o voglio entrarti fin nelle ossa, neanche questo so dirtelo, se vivo questa esistenza con il cipiglio di chi ha la cieca determinazione di spingersi oltre quel che tutti chiamano verità, o se tento di morirti tra le braccia, mistero occulto di questo mio inconscio ballerino, però stasera avrò fatto un altro po' di strada, questo è certo, mi sarò separata ancora di qualche altro passo da me stessa e quindi sarò già più vicina a me, a te, e il sonno arriverà, questa volta ne sono certa, e sarà un vagheggiare dolcissimo di dormirti accanto, sarà puntare il piede nella terra nera, e dire da qui non mi muovo se non vieni con me o resteremo qui per sempre, esposti al freddo selvaggio, sarà lavorare una vita intera per dimostrarti in un minuto soltanto quanto sia necessario e doveroso premere le mani sul pavimento per dare forza al tuo corpo di rialzarsi, e di rimettersi in cammino, è proprio e soltanto il fatto che non si arrivi da nessuna parte a doverci dare le energie adatte alla strada, il punto visibile in fondo è l' abisso, e puoi chiamarlo morte, e puoi chiamarlo amore, perché ognuno sceglie se morire o se amare, e non esistono terze vie, interpretazioni altre, nessuna sintesi tra tesi e antitesi, ognuno sceglie se morire o se amare, ed è esattamente a quella stazione che ci fermeremo, non ad una dopo, né a qualcuna prima: è precisamente a te che tendo, che miro, che lascio il tendine, che scocco, che arrivo, che vieni, se lo vuoi, se lo voglio.

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