Vettriano

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martedì 17 dicembre 2013

il Nulla

L' impossibilità (o l'estrema difficoltà della sua realizzazione) insita nella parola 'utopia' avrebbe dovuto metterci in guardia dalle nostre illusioni. Tuttavia esiste un' età della vita nella quale pare sia passaggio obbligato sognare, credere, aspirare, tendere: l' età dello Streben non dura per sempre, a mio parere, ma solamente una manciata di anni, una decina, una quindicina nei sognatori più accaniti. Poi la vita risponde, a muso duro, e ti prende per la testa e ti porta dritto verso il muro più incrollabile, dove ti spacchi la fronte, una, due volte, finché le utopie si dissolvono, si disintegrano, e diventano schegge pericolosissime, che nel peggiore dei casi si conficcano nel cervello e ti pungono i pensieri per tutto il resto della vita.

Noi siamo sul confine di questa disillusione che chiamano passaggio all' età adulta, e ce ne restiamo sulla soglia, senza entrarvi, perché per fortuna non sembriamo esserne obbligati più come un tempo dalle norme e dalle scadenze che l' uomo aveva creato per autoregolarsi in modo artificiale.

Noi siamo nel ciclone delle delusioni, noi siamo entrati nel mondo reale, dove ogni cosa non può essere come la pensiamo, perché non siamo capaci in quanto essere imperfetti di creare il migliore dei mondi possibili, ma tutto al più ci è concesso vivere nel mondo che ci tocca.

E allora che fare, se le nostre fantasie, le nostre aspirazioni, cozzano contro una realtà che non sembra affatto rispondere ad esse? Non possiamo cogliere la verità assoluta dal momento che non esistono le strade migliori e quelle peggiori: non è come credevamo da bambini, non esistono poi confini così netti tra il bene e il male ed il giusto e il sbagliato; molte volte il fascino dell' oltre limite ci cattura, ci intrappola, e poi però ci frega, lasciandoci soli con le nostre mille domande alle quali mai saremo in grado di rispondere, perché la collettività non è un insieme di immagini singole uguali a se stesse che formano la medesima unica immagine ingigantita, la collettività è l' effetto ottico di un insieme molteplice e tremendamente, atrocemente individuale e soggettivo. E una volta che questo viene appurato, una volta che si sfalda la prospettiva comoda del “tanto questo è sbagliato e questo no, quindi questo devo farlo e quest' altro no”, restiamo noi soli e lo specchio del nostro Io, al quale cominciamo, impauriti, a chiedere: cos'è che vuoi? Cos'è che per te val la pena? Cosa per te è il bene e cosa è il male?

Ma chi è che risponde davvero? Un riflesso, un' ombra di noi stessi, imbevuta delle regole che, pur zoppicanti, ancora reggono le redini dell' ordine sociale e collettivo, o un essere pensante autonomo, spoglio da ogni pregiudizio e decontestualizzato dal circostante? E quale delle due voci sarebbe meglio ascoltare, e perché l' una dovrebbe essere meno attendibile dell' altra? In base, a loro volta, di quale giudizio morale? E ponendoci interrogativi del genere potremmo risalire all' infinito, eppure prima o poi ci troveremmo sulla punta estrema (che affaccia sull' abisso) di tutti i nostri dubbi e le nostre incertezze, ossia sull' impossibile determinazione del senso dell' esistenza umana e del suo creatore.

La serenità va dunque scelta, in quanto va scelta una strada da imboccare, per gradiente, per comodità, per qualunque motivo, mentre la rabbia è istinto, e in quanto tale la sua incontrollabilità ci sembra forza, ci sembra autorevolezza, ma è solo viltà, è solo abbandonarsi alla superficie increspata delle onde che si muovono a causa della brezza e non per loro consapevole scelta.

E allora d' improvviso, anche se hai poco più di vent' anni, ti coglie quella sensazione di stanchezza, di mollezza, di rassegnazione profonda, e quasi ti senti vecchio, più vecchio del mondo, perché hai sentito, tutto insieme, in una notte sola, il peso dell' insensatezza dell' universo, e ora sei così sazio di nulla e di incerto che ti viene solamente voglia di restare immobile e di guardare Dio mentre monta e smonta i giorni quasi fossero un gioco per bambini. E allora ti affacci al balcone, che è il diretto prolungamento di una casa dove fingiamo di essere al sicuro, che è il ponte che unisce il 'di fuori' con il 'di dentro', ma del 'di fuori' ti restituisce solamente una facciata d' insieme, che puoi guardare standotene in alto, lontano, senza parteciparvi in modo diretto. E respiri l' aria della sera, e bevi il tè caldo, e io passo dalla cucina e ti vedo; sei contorno di una figura che occupa esattamente il posto che dovrebbe, come in una fotografia perfettamente calibrata nei colori e nelle prospettive, come un dipinto surrealista e realista allo stesso tempo, anacronistico così come ti senti dentro, ed esco fuori anche io, e ti cingo le spalle, da dietro, e provo a stringerti per saperti vivo, per sentire il calore del tuo corpo, il tuo sangue sottopelle che fa ancora il suo dovere, e m' immergo nella tua apnea, e ti sussurro che c'è tempo, c'è ancora tempo, ma quanto più c'è tempo tanto più è tardi, la vita è un gioco del rovescio, è un patto segreto degli opposti che si beffano di noi, sempre, fino alla fine, fino a quando poi ci viene alla bocca assieme all' ultimo respiro una verità incontrovertibile, e cioè che l' amore è il solo contrario della morte.

Custodiscila, la tua diversità, coccola le tue nevrosi, educale come i tuoi figli prediletti, e non raccontarti bugie, mai, perché la differenza è l' unico bene che ci resta, perché il bene e il male che ci affliggono, che ci assalgono, che sembrano provenire da un demone esterno oscuro e che invece crescono, si nutrono e maturano solo in noi, fanno di noi quello che siamo, ed è proprio in quello che siamo che esiste la scelta, che esiste il soggetto, che l' Io si dipana, si dispiega, ci suggerisce quello di cui ha piacere e quello di cui ha orrore: loro sono la nostra prima verità.
Il tribunale astratto della coscienza non è altro che un teatro di partecipazioni all' etica di gruppo travestito male, poiché se per coscienza intendiamo il senso di inadeguatezza provato nell' andare contro la corrente della massa, allora no, non dobbiamo essere schiavi della nostra coscienza, non dobbiamo essere schiavi di nulla, neanche di noi stessi e della nostra stessa inattività. Perché sotto le spoglie del nostro voler restare immobili per un giorno o per sempre, si nasconde ben altro che una libera scelta arbitrale, catene molto più pesanti del senso comune ci tengono legati nelle prigioni dell' anima, e sono paure delle conseguenze delle nostre scelte, e sono timori di riuscire male, di sapersi star male, star peggio, e sono fantasmi che assillano la mente e le impediscono il sonno; ma l' alba ci insegna che ogni notte si esaurisce nel giro di poche ore, così come lo stesso giorno, d'altra parte, lascia subito spazio ad una nuova notte, e nell' alternarsi incessante delle quotidianità sta la chiave di tutto il castello al quale non crediamo di avere accesso, poiché ogni azione (e anche ogni inazione, a suo modo, perché non si annullano gli opposti neanche nell' immobilità) provoca reazioni a tratti positive, che paiono darci ragione, rafforzare le nostre tesi, renderci autorevoli agli occhi del 'di fuori', a tratti profondamente negative, che ci mettono di fronte ad una evidente inadeguatezza dello stare al mondo, poiché siamo tutti adeguati e tutti inadeguati allo stesso modo, poiché siamo tutti vivi per caso e moriremo tutti per caso, perché tutti siamo felici in un solo momento e soffriamo da cani il giorno dopo, o il giorno stesso, e ogni tentativo sciocco di tenere fermo il pendolo solamente da un lato ci porterà via tutte le poche forze che abbiamo in corpo.

Bisogna tuttavia sapersi fermare, perché è necessario anche questo: quelli che condannano l' immobilità fanno del qualunquismo e non sono connessi con la realtà atroce delle cose. Bisogna sapersi fermare, attendere, ingannare il tempo, sentirselo scorrere addosso come acqua fredda (ma non troppo). Perché la serenità passa attraverso l'inazione: sedersi senza avere l' affanno di fare cose che non rispondono alla nostra più intima volontà (ma alla volontà e al piacere altrui), senza dovercisi sentire responsabili se non si sceglie di esserlo. È nel silenzio più assoluto e più rombante del cielo notturno che emergeranno dal fondale sabbioso le prime stelle. È potendo ascoltarci, è potendo godere di un abbraccio tacendo, è nella scintilla della completezza di un momento nel quale sentiamo di non aver bisogno di nient' altro, è lì il germe della nostra felicità, è lì il feto del nostro Io, perché è lì che siamo noi, è dove noi siamo che siamo felici, è dove ci ritroveremo, a sera, dopo una giornata di chiasso e di gente inutile, nel calore della nostra dimora, che potremo essere sereni, lì è dove Io e mondo coincidono, dove soggetto e oggetto si ricostituiscono, si rianimano, tornano a stringere patti sinceri alla luce del sole, e pian piano ci escono dagli occhi, dalle labbra, dalle mani, per costruire, per lasciare tracce effimere (ma testimoni del nostro aver vissuto davvero) nel giorno che fugge del nostro passaggio inevitabile su questa terra.

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