Vettriano

Vettriano

giovedì 19 dicembre 2013

Dell' Assenza e della Presenza.

E dunque nulla, ho pubblicato questa raccolta di poesie online, dal titolo "Dell' assenza e della presenza".
Qui, sul blog della casa editrice Matisklo troverete un articolo introduttivo:

http://matiskloedizioni.wordpress.com/2013/12/19/in-libreria-dellassenza-e-della-presenza-di-eleonora-rimolo/

E qui, sul sito della casa editrice Matisklo, il libro e la sua anteprima gratuita.
Ricordo che il libro è disponibile anche presso tutti gli store online (quali Amazon, Ibs, etc.)

http://www.matiskloedizioni.com/dellassenzaedellapresenza/index.html

Au Revoir.

martedì 17 dicembre 2013

il Nulla

L' impossibilità (o l'estrema difficoltà della sua realizzazione) insita nella parola 'utopia' avrebbe dovuto metterci in guardia dalle nostre illusioni. Tuttavia esiste un' età della vita nella quale pare sia passaggio obbligato sognare, credere, aspirare, tendere: l' età dello Streben non dura per sempre, a mio parere, ma solamente una manciata di anni, una decina, una quindicina nei sognatori più accaniti. Poi la vita risponde, a muso duro, e ti prende per la testa e ti porta dritto verso il muro più incrollabile, dove ti spacchi la fronte, una, due volte, finché le utopie si dissolvono, si disintegrano, e diventano schegge pericolosissime, che nel peggiore dei casi si conficcano nel cervello e ti pungono i pensieri per tutto il resto della vita.

Noi siamo sul confine di questa disillusione che chiamano passaggio all' età adulta, e ce ne restiamo sulla soglia, senza entrarvi, perché per fortuna non sembriamo esserne obbligati più come un tempo dalle norme e dalle scadenze che l' uomo aveva creato per autoregolarsi in modo artificiale.

Noi siamo nel ciclone delle delusioni, noi siamo entrati nel mondo reale, dove ogni cosa non può essere come la pensiamo, perché non siamo capaci in quanto essere imperfetti di creare il migliore dei mondi possibili, ma tutto al più ci è concesso vivere nel mondo che ci tocca.

E allora che fare, se le nostre fantasie, le nostre aspirazioni, cozzano contro una realtà che non sembra affatto rispondere ad esse? Non possiamo cogliere la verità assoluta dal momento che non esistono le strade migliori e quelle peggiori: non è come credevamo da bambini, non esistono poi confini così netti tra il bene e il male ed il giusto e il sbagliato; molte volte il fascino dell' oltre limite ci cattura, ci intrappola, e poi però ci frega, lasciandoci soli con le nostre mille domande alle quali mai saremo in grado di rispondere, perché la collettività non è un insieme di immagini singole uguali a se stesse che formano la medesima unica immagine ingigantita, la collettività è l' effetto ottico di un insieme molteplice e tremendamente, atrocemente individuale e soggettivo. E una volta che questo viene appurato, una volta che si sfalda la prospettiva comoda del “tanto questo è sbagliato e questo no, quindi questo devo farlo e quest' altro no”, restiamo noi soli e lo specchio del nostro Io, al quale cominciamo, impauriti, a chiedere: cos'è che vuoi? Cos'è che per te val la pena? Cosa per te è il bene e cosa è il male?

Ma chi è che risponde davvero? Un riflesso, un' ombra di noi stessi, imbevuta delle regole che, pur zoppicanti, ancora reggono le redini dell' ordine sociale e collettivo, o un essere pensante autonomo, spoglio da ogni pregiudizio e decontestualizzato dal circostante? E quale delle due voci sarebbe meglio ascoltare, e perché l' una dovrebbe essere meno attendibile dell' altra? In base, a loro volta, di quale giudizio morale? E ponendoci interrogativi del genere potremmo risalire all' infinito, eppure prima o poi ci troveremmo sulla punta estrema (che affaccia sull' abisso) di tutti i nostri dubbi e le nostre incertezze, ossia sull' impossibile determinazione del senso dell' esistenza umana e del suo creatore.

La serenità va dunque scelta, in quanto va scelta una strada da imboccare, per gradiente, per comodità, per qualunque motivo, mentre la rabbia è istinto, e in quanto tale la sua incontrollabilità ci sembra forza, ci sembra autorevolezza, ma è solo viltà, è solo abbandonarsi alla superficie increspata delle onde che si muovono a causa della brezza e non per loro consapevole scelta.

E allora d' improvviso, anche se hai poco più di vent' anni, ti coglie quella sensazione di stanchezza, di mollezza, di rassegnazione profonda, e quasi ti senti vecchio, più vecchio del mondo, perché hai sentito, tutto insieme, in una notte sola, il peso dell' insensatezza dell' universo, e ora sei così sazio di nulla e di incerto che ti viene solamente voglia di restare immobile e di guardare Dio mentre monta e smonta i giorni quasi fossero un gioco per bambini. E allora ti affacci al balcone, che è il diretto prolungamento di una casa dove fingiamo di essere al sicuro, che è il ponte che unisce il 'di fuori' con il 'di dentro', ma del 'di fuori' ti restituisce solamente una facciata d' insieme, che puoi guardare standotene in alto, lontano, senza parteciparvi in modo diretto. E respiri l' aria della sera, e bevi il tè caldo, e io passo dalla cucina e ti vedo; sei contorno di una figura che occupa esattamente il posto che dovrebbe, come in una fotografia perfettamente calibrata nei colori e nelle prospettive, come un dipinto surrealista e realista allo stesso tempo, anacronistico così come ti senti dentro, ed esco fuori anche io, e ti cingo le spalle, da dietro, e provo a stringerti per saperti vivo, per sentire il calore del tuo corpo, il tuo sangue sottopelle che fa ancora il suo dovere, e m' immergo nella tua apnea, e ti sussurro che c'è tempo, c'è ancora tempo, ma quanto più c'è tempo tanto più è tardi, la vita è un gioco del rovescio, è un patto segreto degli opposti che si beffano di noi, sempre, fino alla fine, fino a quando poi ci viene alla bocca assieme all' ultimo respiro una verità incontrovertibile, e cioè che l' amore è il solo contrario della morte.

Custodiscila, la tua diversità, coccola le tue nevrosi, educale come i tuoi figli prediletti, e non raccontarti bugie, mai, perché la differenza è l' unico bene che ci resta, perché il bene e il male che ci affliggono, che ci assalgono, che sembrano provenire da un demone esterno oscuro e che invece crescono, si nutrono e maturano solo in noi, fanno di noi quello che siamo, ed è proprio in quello che siamo che esiste la scelta, che esiste il soggetto, che l' Io si dipana, si dispiega, ci suggerisce quello di cui ha piacere e quello di cui ha orrore: loro sono la nostra prima verità.
Il tribunale astratto della coscienza non è altro che un teatro di partecipazioni all' etica di gruppo travestito male, poiché se per coscienza intendiamo il senso di inadeguatezza provato nell' andare contro la corrente della massa, allora no, non dobbiamo essere schiavi della nostra coscienza, non dobbiamo essere schiavi di nulla, neanche di noi stessi e della nostra stessa inattività. Perché sotto le spoglie del nostro voler restare immobili per un giorno o per sempre, si nasconde ben altro che una libera scelta arbitrale, catene molto più pesanti del senso comune ci tengono legati nelle prigioni dell' anima, e sono paure delle conseguenze delle nostre scelte, e sono timori di riuscire male, di sapersi star male, star peggio, e sono fantasmi che assillano la mente e le impediscono il sonno; ma l' alba ci insegna che ogni notte si esaurisce nel giro di poche ore, così come lo stesso giorno, d'altra parte, lascia subito spazio ad una nuova notte, e nell' alternarsi incessante delle quotidianità sta la chiave di tutto il castello al quale non crediamo di avere accesso, poiché ogni azione (e anche ogni inazione, a suo modo, perché non si annullano gli opposti neanche nell' immobilità) provoca reazioni a tratti positive, che paiono darci ragione, rafforzare le nostre tesi, renderci autorevoli agli occhi del 'di fuori', a tratti profondamente negative, che ci mettono di fronte ad una evidente inadeguatezza dello stare al mondo, poiché siamo tutti adeguati e tutti inadeguati allo stesso modo, poiché siamo tutti vivi per caso e moriremo tutti per caso, perché tutti siamo felici in un solo momento e soffriamo da cani il giorno dopo, o il giorno stesso, e ogni tentativo sciocco di tenere fermo il pendolo solamente da un lato ci porterà via tutte le poche forze che abbiamo in corpo.

Bisogna tuttavia sapersi fermare, perché è necessario anche questo: quelli che condannano l' immobilità fanno del qualunquismo e non sono connessi con la realtà atroce delle cose. Bisogna sapersi fermare, attendere, ingannare il tempo, sentirselo scorrere addosso come acqua fredda (ma non troppo). Perché la serenità passa attraverso l'inazione: sedersi senza avere l' affanno di fare cose che non rispondono alla nostra più intima volontà (ma alla volontà e al piacere altrui), senza dovercisi sentire responsabili se non si sceglie di esserlo. È nel silenzio più assoluto e più rombante del cielo notturno che emergeranno dal fondale sabbioso le prime stelle. È potendo ascoltarci, è potendo godere di un abbraccio tacendo, è nella scintilla della completezza di un momento nel quale sentiamo di non aver bisogno di nient' altro, è lì il germe della nostra felicità, è lì il feto del nostro Io, perché è lì che siamo noi, è dove noi siamo che siamo felici, è dove ci ritroveremo, a sera, dopo una giornata di chiasso e di gente inutile, nel calore della nostra dimora, che potremo essere sereni, lì è dove Io e mondo coincidono, dove soggetto e oggetto si ricostituiscono, si rianimano, tornano a stringere patti sinceri alla luce del sole, e pian piano ci escono dagli occhi, dalle labbra, dalle mani, per costruire, per lasciare tracce effimere (ma testimoni del nostro aver vissuto davvero) nel giorno che fugge del nostro passaggio inevitabile su questa terra.

domenica 15 dicembre 2013

14/12/13

La luna la vedo come se stessi piangendo, ma non sono le lacrime che non ho più a renderla così opaca, è solo il velo di umidità che condanna questa città alla sfumatura eterna.

La panchina della mia infanzia rubata mi restituisce brividi di ferro lungo la schiena, e mi viene da pensare che l' immutabilità stia sul fondo di tutte le progressioni.

Perché dopo vent' anni confondo ancora gli uteri e le mani, e se faccio male alle mie vorrei ferire quelle sue, e se cerco rifugio è perché mi sento ancora feto e già madre, e non so dove fuggire, perché di elemosina non ne chiedo più al cielo, agli altri, che prendono dalle mie tasche solamente quello che serve e poi vanno via sbattendo la porta. Non ho più nulla qui, in questa casa che non mi è mai appartenuta, ogni oggetto della mia stanza è una cosa di qualcun altro, non hanno più storia nemmeno questi libri, catalogati sistematicamente per sentirli miei, per averli dentro di me.

Risento le risate, le grida, i sospiri dei primi baci in questa strada illuminata dall' ipocrisia del Natale, e per quanto un macigno spinga nel mio stomaco chiedendomi di uscire, io non gli concedo più udienza, e mi guardo intorno per cercare il sale che mi manca, io voglio piangere, fatemi piangere, vi prego, vi imploro.

Si avvicina pericolosamente un altro diciotto dicembre, utilizzo tutte le mie forze per guardare soltanto avanti a me, ce l'ho, ho il controllo dei muscoli del mio collo, resto ferma a fissare la linea sbieca dell' orizzonte, non girarti, non farlo, non troverai nessuno ai tuoi fianchi, figurarsi dietro di te, non girarti, non è giusto, stringi i pugni e continua a camminare, avanti, avanti, sempre avanti anche quando le ginocchia si sbucciano tra i rovi della notte e lo stomaco si rifiuta di accogliere cibo, sempre avanti, avanti, portati dietro come il più grande tesoro che hai la tua capacità di amare, quella e solo quella ti resta, quella e per quella vivi, lei è il tuo vessillo, il senso, semina amore, semina amore, e raccogline pure tempesta, ma semina, semina amore finché te ne resta in corpo.

...Ma il mio sogno si nutre col niente, eppure quel che sogno non è nulla di diverso dal calore di una casa modesta, dove posso ritrovarmi a sera con chi sente per me affetto e vuole stare accanto.

Non so in che mondo sono finita, in quale universo sono capitata, per caso, per puro incidente, ma sono ventidue anni che tutto questo non mi piace affatto.

lunedì 9 dicembre 2013

09/12/13

"Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero di esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l'altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri."
▪ Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso.


Oggi vorrei poter dire, questo è il giorno della mia resurrezione, e per resurrezione intendo una specie di elevarsi al di sopra del resto, come scrollarsi di dosso lo strato di polvere consistente che abbiamo accumulato su di noi, colpevoli di non aver saputo fare pulizia da prima, e con queste vesti superiori vorrei poterti dire, si riparte da qui, senza che prima ci sia stato mai nulla, una vasta distesa di bianco che puo' essere un' alba, un tramonto, o una nebbia assoluta e perenne che non cela niente dietro di sé. Vorrei che fosse possibile perché di certo tutti i nostri giorni meritano la purezza che ci hanno sottratto troppo in fretta, avevamo tra le mani un frutto così maturo e sano e ce lo hanno portato via, tra le dita sono rimaste gocce di succo che poi è andato a male, e a sfamarci non è rimasto niente, se non spine di rose mai sbocciate, che rose poi neanche erano, ma foglie morte travestite da fiori. Invece non posso, non puoi, ci guardiamo rassegnati, stanchi, colpevoli, e senza soffrire ancora ce lo diciamo, non posso, non puoi, io sono questo, tu sei questa qui, e di miserie e di errori e di bruttezze ne abbiamo pur fatte e ancora di più subite, e ce le portiamo addosso come una crosta impossibile da rimuovere, sfrega pure quanto ti pare, niente di quello che è il nostro passato andrà mai via, e ci sono ore come queste, dove tutto sembra soffrire con noi, in cui uno specchio qualunque mi restituisce un' immagine insana, dove questa eredità di disaffezioni e di tormenti punge e pesa; punte di spillo e macigni insostenibili mi spezzano tutti i respiri, e l' ondeggiare del sogno nel reale rende la notte e la veglia insopportabili. Di tutte le porte che ti ho spalancato, questa proprio non si apre più, ed è un bene che non lo faccia, non cercare di entrarvi, amore mio, resta sempre sulla soglia, ti sussurro, dunque ti spingo via e ti tiro per un braccio, e nella corsa affannosa verso il più prossimo futuro mi imbatto nei tuoi demoni, stavolta, dopo essere riuscito a sottrarti ai miei, ma sono solo voci di fantasma, che svelano nuove menzogne, incredibili tradimenti, lacrime incandescenti, e allora corriamo ancora, contro la tempesta, come sarebbe bella una pagina nuova di un libro altro, ma nel grande vocabolario del mondo la parola della quale ci spetta scrivere il lemma è una soltanto, e sta in mezzo al rumore indistinto del chiacchiericcio inutile di ciò che si è stati.

L' inverno è la nostra stanchezza, lontane le nostre terre irraggiungibili e amate ci osservano mutare, ogni ora ci guardano soccombere, e ci sovrastano: come fossimo sulla sommità del nostro monte sterminatore in basso contempliamo religiosamente le città fumanti dopo l' incendio universale; fotografie, versi, gesti ridicoli, ossessioni, manie, tentativi, ridicolezze, pochezze, umiliazioni, coltelli tesi che amavamo conficcarci da soli nel ventre (e di cui restano i segni ancora sui palmi delle mie mani, perché mi accorgo oggi più di ieri di quanto il mio ventre sia troppo magro, troppo malato, per poter contenere cose, per poter sedurre, per poter essere vivo, e apprezzo che muoia, e io con lui, adesso, per sempre, forse), tutto brucia e il fumo che si leva dalle macerie informi arriva alle nostre narici col nome di giovinezza, e sul confine di questi anni io scivolo, e non vorrei mai tornarvi, oggi sono come qualcuno che viaggia dentro un vagone antico, e si vede divorare gli occhi da un paesaggio vuoto disegnato sul vetro del finestrino, sono quindi in treno, e ho al mio fianco tutte le valigie necessarie, e molti libri, e poca ma buona musica, qualche amuleto e parecchia folle speranza.
Se sto tornando a casa o sto fuggendo, questo non saprei dirtelo, ma se chiudo gli occhi mi vedo ancora indagare, scavare, aprire, voglio soltanto farmi male, o voglio entrarti fin nelle ossa, neanche questo so dirtelo, se vivo questa esistenza con il cipiglio di chi ha la cieca determinazione di spingersi oltre quel che tutti chiamano verità, o se tento di morirti tra le braccia, mistero occulto di questo mio inconscio ballerino, però stasera avrò fatto un altro po' di strada, questo è certo, mi sarò separata ancora di qualche altro passo da me stessa e quindi sarò già più vicina a me, a te, e il sonno arriverà, questa volta ne sono certa, e sarà un vagheggiare dolcissimo di dormirti accanto, sarà puntare il piede nella terra nera, e dire da qui non mi muovo se non vieni con me o resteremo qui per sempre, esposti al freddo selvaggio, sarà lavorare una vita intera per dimostrarti in un minuto soltanto quanto sia necessario e doveroso premere le mani sul pavimento per dare forza al tuo corpo di rialzarsi, e di rimettersi in cammino, è proprio e soltanto il fatto che non si arrivi da nessuna parte a doverci dare le energie adatte alla strada, il punto visibile in fondo è l' abisso, e puoi chiamarlo morte, e puoi chiamarlo amore, perché ognuno sceglie se morire o se amare, e non esistono terze vie, interpretazioni altre, nessuna sintesi tra tesi e antitesi, ognuno sceglie se morire o se amare, ed è esattamente a quella stazione che ci fermeremo, non ad una dopo, né a qualcuna prima: è precisamente a te che tendo, che miro, che lascio il tendine, che scocco, che arrivo, che vieni, se lo vuoi, se lo voglio.

lunedì 28 ottobre 2013

Patior.

È la pazienza che mi manca, il patire. È la pazienza di invecchiare, la pazienza di avere pazienza, che significa poi soffrire, ed è strada univoca verso la verità, per chi la ama, poiché chi vuol bene alla verità sempre e per sempre è disposto a soffrire, ogni giorno soffre con dolore, con pazienza, chiudendo gli occhi, e attendendo quella carezza di madre e di amante che arriverà, prima o poi, da un luogo che neanche sapevamo dove fosse, ma nel frattempo, e anche dopo, nello spazio tra una dolcezza reale e l' altra, che sembra infinito eppure necessario per tendere bene l' arco del piacere e far sì che scocchi una freccia sola, decisa, dritta al cuore proteso, bisogna comunque avere pazienza, e usare il tempo della mancanza per coltivare ancora altra pazienza, che non è mai abbastanza, e farsi bastare un pasto caldo e frugale, in una sera d' autunno.
Guardare, bisogna guardare e vedere e non vedere, allo stesso tempo, e sapere, e voler non sapere, come la storia si dispiega e si rivela a noi lungo i corrimani delle case agguantate dal vento d' ottobre lungo la strada stretta che porta al mare. I mattoni delle loro mura sono mattoni eppure non lo sono, il gioco della rivelazione degli opposti ci mostra una realtà da toccare e da sentire, dura se ci battiamo la testa, eppure ce ne lascia intendere anche e sempre un' altra, intangibile, non ricreabile attraverso gli strumenti di cui disponiamo, e che tuttavia esiste ed è come una domanda oracolare (e non una risposta, che non c'è, quasi mai, almeno) sulla natura del bene e del male. E con le nostre braccia frughiamo tra le cose alla ricerca disperata di una norma, ma vedi, la pazienza è l' approdo, non il porto sicuro: lì è dove sarebbe il bene che ti chiedi, che mi chiedo. Vedo il pontile, le barche arenate come cadaveri profanati sulla riva, una luce lontana che ci isola dall' universo altro ricordandoci le tenebre in cui siamo immersi; e questo è il porto sicuro, questo il bene, non il mare di petrolio leggero che veste la terra, non il cielo privo stasera di stelle, non l' arbusto che copre il segreto, ma queste tue braccia che cingono alle mie spalle quel che resta immacolato del mio corpo: un fianco, qualche costola, il pallido riflesso rovesciato dei nostri volti che mi incontra sullo specchio dell' acqua immobile.
Pazienza, bisogna avere pazienza, e ascoltare in silenzio la voce del sogno: ci parla di timori e di morte, e ci tremano in bocca le labbra, di brevi sospiri intrecciate. Dov'è la paura è lì che siamo, tra i granelli di sabbia che sono miliardi di corpuscoli di niente, ma siamo anche dove ci pareva che dovesse suonare quella sirena sull' orizzonte che la nave copre, e dove speravamo che quell' ancora venisse slegata, e lasciata conficcare al suolo, al largo delle nostre speranze, dopo aver a lungo navigato errando e pure annegato, senza fine e senza meta alcuna, prima di adesso. Perché il mondo degli eroi non ci appartiene, e giro il viso dalla parte opposta al suo simulacro: lascio che brillino le luci divine in un ipotetico aldilà di cui non voglio occuparmi, e oggi mi faccio uomo, e sono umana , così come tu lo sei, senza provarne vergogna alcuna; tra le tue parole leggo una forma che mi conforta, un' accettazione placida e saggia della miseria, e una confidenza della carne che passa, imperfetta e preziosa, perché tanto mortale da dover schivare anche il più lieve soffio di vento. Tutta la sera ci piomba sul capo e senza anelare all' eterno sediamo stanchi dietro le nostre finestre; è trascorsa un' altra giornata, ed è una spossatezza che quasi ci coccola; è schiaffo e carezza, è crepuscolo che si piega a nuova aurora, ed io non so mai stata così felice di non essere beata come un dio. Anticipa la pioggia uno scarto dei sensi, e nell' incertezza dell' accordo muto il mio spirito pensoso si fa d' un tratto desiderio, ed irrompe impetuoso portandosi via tutti gli argini mai costruiti del mio orgoglio: smodato e ancestrale il richiamo violento della luna piena mi riporta ad un lido soltanto, e spariscono le nubi dei tormenti indifferenti, e tutto è niente e siamo così di nuovo meravigliosamente soli nella notte, privi di linguaggio, privi di ragione; si cercano le viscere nostre e ci fanno animali nella speculare immagine di una corsa affannosa verso l' Ignoto, senza l' ingombro polveroso del passato e senza l' alito penoso del futuro, senza occhi e senza freno, solo di mani, solo di mani siamo fatti, e di miele che scorre, e di pazienza che nutre le voglie della vita.
 
 

domenica 20 ottobre 2013

Ad maiora.

Il dolore riesce ad essere acuto, pungente, finanche invalidante, paralizzante: come un velo attorno agli occhi ti rende tutte le cose fosche e senza ben definiti contorni. Il dolore spiazza, ci matura dentro mentre creiamo illusioni di felicità, e poi esplode, e dopo il rimbombo un enorme, sconfinato, devastante silenzio, tutt' intorno. Ma non c'è nulla, nulla che possa impedire alla natura di ricrearsi, all' eterno ciclo rigenerativo di compiersi, nulla che mi impedisca di tremare ancora come una foglia, e non per il freddo, nulla che possa frapporsi tra i miei e i suoi occhi, in un momento, in un lampo di una sera, quando il mondo attorno scompare e non resta che il fiato caldo dei corpi, il respiro affannato della carne, ed è per questo che siamo vivi, che bella cosa che è la vita, in fondo, dopotutto, che straordinaria capacità di cicatrizzare, che immenso patrimonio di forza bruta ci troviamo a poter gestire, io voglio, io voglio sentirmi animale, voglio lasciarmi guidare e portare lungo il corso del fiume dell' istinto, ho avuto fiuto e ho trovato una cosa bella, e questa mi ha accolto, ora sono sulla soglia di una casa nuova, che non conosco, che non mi è familiare ma mi colpisce allo stomaco e mi provoca scariche di adrenalina al basso ventre, ed io che stupidamente ero convinta di non poter mai più provare una simile eccitazione solo a sentirmi sfiorare, io che umanamente ho peccato e ho considerato il mio momentaneo disagio come una legge eterna e universale, quante cose non avevo capito, quanta vita mi stavo perdendo. Eppure a volte è giusto fermarsi, è giusto. E' giusto sentirsi la testa piena di orrore, voler fuggire a causa del senso di profonda nausea e di sterminato disagio che ci insegue, è giusto, tutto questo ci fa simili nell' umana sorte, ed io sono felice, così felice, stasera, di far parte di questa umanità fallibile, e tutta la sofferenza che mi ha schiacciata e mi ha provata e mi ha annullata ora mi è cara più di ogni altra cosa, più di tutto sono affezionata alle mie ansie, alle sue ansie, alle mie manie, alle sue manie, più di ogni altra cosa desidero essere viva e vedere il domani, per potermi ancora sentire giovane, e bella, e desiderata; quando ho capito che di fronte a me c'era un nuovo baratro, e al di là di esso una possibile piccola o grande gioia, mi sono detta, ecco, e ora che faccio, se mi fermo qui ci resterò tutta la vita, troppo mi ero legata all' idea di un passato ormai lontano ma per me quasi indissolubile, e dunque che faccio, se non mi fermo, devo saltare, salto, e se stavolta invece di sbucciarmi le ginocchia e spezzarmi un braccio e due denti dovessi morire, cosa accadrebbe, ma non importa, non mi importa niente, sono stata sinceramente cosciente di saltare, ancora, di nuovo, e salterei altre milioni di volte e altre milioni ancora, perché saltare e tentare è quello che ci resta, ma più di tutto, ci resta l' amore, ed è per quello che io provo ancora a saltare, è per quello che studio, curvandomi la schiena, è per quello che lavoro, seccandomi la gola, è per quello che sto sveglia la notte, quando lo spirito si sintonizza sulla giusta frequenza e scrivere mi appare più che un piacere, e infine, oggi, è per quello che sorrido, lievemente, di nascosto, perché le sue mani devono restare un segreto, e nessuno deve accorgersi di quanto sia bello sentirle muoversi per me, è un germoglio di vita che coltivo con estrema delicatezza, non è vero che non ne avevo più di energie, che ero cambiata, che non ero più in grado di voler bene alle cose, a me stessa, alle persone. Questo non dipende da nient' altro che da noi stessi; morirei pur di portare alle estreme conseguenze il mio essere, pur di riuscire a percepire un ultimo pulpito di bellezza e a farlo mio, si è inclini al voler amore, al voler amare, si è predisposti al sensibile, e che bello è conoscersi dentro come Apollo elegante che suona armoniosamente la cetra della ragione ma anche come Dioniso, nella furia ancestrale del desiderio, e ho la pelle tutta scorticata perché pure un alito di vento la fa bruciare intensamente, ma non importa, non c'è modo migliore che io conosca di godere se non passando prima attraverso il dolore, è così ovvio, a me non interessa niente di niente se non questo, fare due passi, sentire l' aria frizzante delle sere d' autunno in città, aspettare il momento buono sul quale fantastichiamo senza dircelo, leggere le poesie che sto studiando all' università, copiarle sull' agenda nuova, sentire il suo profumo dovunque anche se non c'è, accendere una candela, spegnere anche l' ultima delle luci, e sentire che non fa più paura la notte, non così tanto come prima, perché in potenza potrebbe non farci paura mai più, e questa sincera consapevolezza ci carezza, e ci culla, come bambini, e anche se nascono sempre mostri nuovi, questi in rari momenti non ci sembrano poi neanche così feroci, così pericolosi, saremmo pur tentati di fargli spazio, nel nostro letto, per dare loro quel po' di riposo che non concedono a noi, e quindi che vengano pure le tenebre, che venga il panico dei giorni asettici, che venga tutto quello che deve venire, poiché nella melma galoppante che ci viene di contro io so finalmente con certezza dell' esistenza tangibile di materia nobile, preziosa, io so con certezza che esiste, e che sa sorridermi, e che sa soffrire, e sopratutto che sa sentire, e che quindi sa comunicare, senza le parole, sopratutto senza le parole, perché se ho scritto questo fiume di parole è solo per dire che adesso non avrei alcuna voglia di parlare, ma solo di tacere, e dunque taccio, finalmente, senza rimpianti, senza rimorsi, col cuore sfregiato eppure immacolato, simile a quel seno che riconosco a malapena nello specchio, di carne rosa di ragazza ma con un tratto di cadavere, e con la testa pesante, pensante, che macina di nuovo voglie, che non smette di volere, e che non ha mai smesso, davvero, in fondo, di sperare.

domenica 29 settembre 2013

Sulla presunta utilità delle lingue morte.

http://www.pensieroscomodo.org/index.php/attualita/75-sulla-presunta-utilita-delle-lingue-morte

(:

Fatevi un giro, ciao.

ci sono molti modi.


Ci sono molti modi di volere bene, disse, mentre poggiava la testa sul suo petto, questo è un modo, e con le mani raccolse una sua mano, tenendola al caldo, in una rete di dita, e questo è un altro modo, e lo guardò, con aria impassibile, ma feroce. Io voglio bene soprattutto ai tuoi silenzi, perché suonano una musica muta che riesco inspiegabilmente a comprendere. Dalla conoscenza profonda del buio viene la sicurezza presuntuosa di muoversi a tentoni, quante volte ho sbattuto la testa, il braccio, una gamba contro di te, mentre nell’ oscurità ti cercavo, quante volte, neanche lo sai. Ci sono come vedi tutti questi modi, e perché tu tiri fuori il peggio di me, che forse è anche il meglio, le chiese, non lo so, rispose, forse perché la linea di confine tra il bello e il brutto è fin troppo sottile quando non si usano le parole ma si usa il corpo, io so che hai voluto punire qualcuno attraverso di me, e so anche chi, e so anche perché, il tuo è un gioco evidente, ma è bello giocare con te, siamo due infanzie perdute per sempre, e io sono una vittima perfetta, a me quello che hai fatto è piaciuto, ho provato un piacere quasi catartico, spiegati meglio, le disse, perché io non riconosco il mostro che fai emergere, non saprei spiegartelo con altre parole, in fondo non è neanche lecito che io ne parli, per noi hanno parlato il modo in cui mi tenevi ferma per il collo, il modo in cui mi tiravi per i capelli, la forza con cui mi hai posseduta, e non è forse un male, non è forse una sconcezza priva di qualunque merito che io ti abbia usato per tirarmi via la brutalità che sento dentro, è stato come se avessi detto e fatto tutto quello che vorrei dire e fare a lei, forse a mia madre, e forse anche a te, si, anche a te, non credi che debba essere vietata una cosa simile, come può esserci affetto in tutto questo, io non mi riconosco più.

Lei non rispose, ma sorrise, semplicemente, e si strinse al suo petto ancora più forte, come fosse una bambina impaurita al sicuro tra le braccia del suo sconosciuto padre.

Vedi, ci sono cose nella vita che non si possono spiegare, se codifichi tutto diventi un imperdonabile assassino, l’ indecifrabile è sempre in agguato e bisogna lasciarlo scorrere, vedi, ci sono delle convergenze di anime che vanno, vengono, si trasformano, mutano, poi tornano all’ atto originario, così, per ricordarci ogni tanto da dov’è che veniamo, nel caso ce ne dimenticassimo, è nostro dovere che tutto scorra, intatto, puro, nulla di ciò che è istinto è reale, ma neanche menzogna, è un lasciare per un attimo le briglie del pensiero, dove ci siamo invischiati un giorno lontano di tanti anni fa senza volerlo, senza saperlo, io so tutto e niente di te, ho osservato da lontano la tua storia, parlandoti della mia per non creare imbarazzanti silenzi, ma era tutta una grossa farsa, le mie infinite narrazioni erano una cornice fantoccio, nulla di ciò che ti ho descritto è davvero importante quando ti guardo negli occhi, perché è allora che mi ricordo il caos primordiale da cui tutti veniamo e dove tutti torneremo, è come se mi spingessi, nuda, di fronte a uno specchio, ricordandomi nello stesso tempo tutti i miei limiti e tutte le mie dolcezze, e io ho terrore di questa cruda verità animale, e vorrei fuggire, mi divincolo dalla tua stretta, ma pur fuggendo è tardi, perché ciò che avrei dovuto vedere l’ho visto, e mi ha già sconvolto.

E tutto è come agire nel buio, sotto la nostra coscienza vi è uno strato di catrame, dentro quello strato spesso io vado a conficcarmi come una scheggia, mi spiace se ti creo fastidio, una specie di puntura lieve, si scusò lei, non importa, disse lui, proprio niente importa, già, rispose lei, proprio niente, non ho che un nulla in questo ventre, soltanto il freddo e il vuoto che hai lasciato dopo un fuoco rigonfio, perché così è la vita, si perde e si riacquista, amore dalle ceneri di un amore precedente, ciclicità assordanti e noiose, nelle quali veniamo catapultati più o meno consapevolmente, e quando accade qualcosa di inatteso, quando qualcuno ci mescola le carte davanti agli occhi, e noi abbiamo le mani legate, allora scatta il terrore, il terrore della perdita, più che della perdita della persona della perdita del controllo che avevamo su quella persona, una sorta di certezza tiepida che riscaldava quanto basta le notti d’ inverno. Si, è proprio questo sapere tutto ma non poter far nulla per evitarlo, l’ essere trascinati dall’ ovvietà della vita, che mi fa pulsare le tempie, ammise lui, e allora è tutto come dovrebbe essere, rispose lei sorridendo nell’ ombra, ogni volta che ti sei spinto dentro di me stasera hai ricordato a te stesso quanta rabbia inespressa ti brucia lo spirito, in ogni carezza mancata, in ogni bacio che mi hai rifiutato, e così ogni volta che mi hai tenuto la testa, mentre ero indifesa e girata di spalle, io e te non abbiamo fatto altro che parlare, dirci le più atroci verità senza emettere che suoni indistinti e soffocati, e io ti ho ascoltato, eccome se ti ho ascoltato, il tuo battere contro il fondo per tentare una vita di fuga dalla vita, non esiste nessuna via di fuga, il limite ultimo sta in fondo all’ utero, è da lì che siamo venuti tutti fuori ed è fino a lì che tutti possiamo ritornare. Sempre, come l’ onda infranta sulla spiaggia che assorbe, ci dissolviamo sbattendo contro i nostri terrori inconsci, indifesi fantasmi della nostra stessa mente siamo, e siamo anche anime perse, e quando andiamo via da un luogo ci sembra a maggior ragione di esserne prigionieri, è una cosa che non capirò mai, le sussurrò all’ orecchio, forse le radici non sono soltanto diramazioni alternative delle nostre vene, chi può mai saperlo, è ovvio però che non abbiamo colpe, perché tutti siamo immacolati e tutti siamo carnefici spietati, a nostro modo, quello che fa la differenza, già, qualcosa che farà la differenza dovrà pur esserci, e si fermò a pensare, lui lo capì perché lei fece una lunga pausa di senso, e poi riprese a piè sospinto, forse quello che cambia le cose, o almeno sembra che le cambi, almeno per un paio d' ore, sono gli occhi, come ti dicevo prima in altri termini, o meglio quello che nascondono: ci sono veli di pupille che riesco facilmente ad alzare senza nemmeno farmi scoprire, e allora vedo un mondo diverso, e mi ci tuffo, concedendoti una crudeltà, e godendone.

Questo cosa vuol dire, chiese interrogativo lui, non lo so, disse lei, non so nulla di nulla, le parole le pensa qualcos’ altro al posto della mia mente, forse sono gli umori a parlare per me, che ancora mi scorrono tra le gambe, la marea lentamente si ritira dopo la piena del fiume, la mia testa è un uovo svuotato adesso, dalla pancia mi salgono alla gola incastri di sillabe, stai parlando col mio sesso, forse, e non con me, adesso, io non voglio parlare con nessuno, affermò perentorio lui, proprio con nessuno, neanche con me stesso, e non c’è bisogno che tu lo faccia, lo rassicurò lei, perché a me è sufficiente parlare con la tua ombra, e cosa diresti alla mia ombra, chiese, cosa le direi, non lo so, forse esattamente quello che le sto dicendo, conosci te stesso, ama chi ti ha messo al mondo, non creare sempre barriere così spesse tra te e le persone, tra te e le cose, rischi di restare isolato dalla realtà contingente, di guardarla sempre con occhio esterno, troppo esterno, a volte è necessario sporcarsi le mani, di fango, di lacrime, di miele, e a queste parole una lacrima cadde dal soffitto sul suo volto, scivolò dalla guancia di lei sulla spalla di lui, e morì tra le lenzuola umide, cadendovi rovinosamente, così come cadde la notte, d' un colpo, fredda, come uno sparo.

domenica 15 settembre 2013

Ciao, a presto.

Siamo rimasti sazi, siamo tronfi, con le nostre certezze incerte, con i nostri progetti mentali spettacolari, tutti questi periodi oscuri che ci tendono la mano e ci portano su un divano, ci facciamo l' amore con le nostre manie e con le nostre ossessioni, ma non siamo per questo in grado di maritarci con loro, restiamo sempre a un palmo di come sarebbe potuta andare, poiché è meglio l' alternativa e l' attesa ad infinitum che la decisione, meglio una tromba che suona a morte, che posticipa un arrivo, che una corsa senza fiato imboccando una strada, però poi il problema è che restiamo immobili in noi stessi, e non ci muoviamo più dalle nostre stanze: tutti, tutti quanti siamo sempre nello stesso luogo, in un tempo che è sempre lo stesso giorno, sempre la stessa ora; non ha importanza che il nostro braccio penzoli inerme o che cinga le spalle di qualche sconosciuto, siamo perfettamente soli alla stessa maniera, non capite che potete penetrare tutti i corpi dell' universo, e ricevere tutti i figli perduti del mondo nel vostro ventre, ma non accadrà mai niente se il cuore resta scollegato, se qualche filo ha interrotto la sua comunicazione con l' esterno, siete gelidi, frigidi, perduti e confusi, vi hanno tirato via senza che voi abbiate opposto resistenza dalla verità e dalla gioia più pura, e siete stati portati in un bordello pieno di miasmi, dove le voci si sovrappongono ai gemiti, e i rigurgiti si sovrappongono alle grida, ed io guardo tutta questa barocca esposizione di carni cercando le menti che non avete più. E sono triste, perché non ritorna stasera, l' infanzia di un sentimento celeste un po' sporco di vizio che desidero è compattato in quest' ultima lacrima che voglio spendere, prosciugarsi per il nulla diventando niente non deve più essere la mia priorità da oggi in poi.

E mi guardate tutti con quell' aria compassionevole, tutti a pensare che tanto sarebbe finita male, per una come me, prima o poi. In qualche modo che non so ci siamo tutti convinti che niente vale la pena, per nessuno, non è pensabile avere ancora delle energie da spendere per coltivare un rapporto affettivo sincero, gratuito, stiamo bene da soli, cani che siamo, con le nostre velleità artistiche mediocri e i nostri ragionamenti cervellotici e vanesi.

E stiamo tutti bene nella nostra sporcizia, nella nostra putrida ipocrisia, stiamo tutti bene quando si tratta di tornare agli uteri e di generare temporaneamente ibridi di uomini, ma poi è importante, anzi no, fondamentale, che ognuno se ne torni a casa propria, senza dire una parola, senza neanche osare avvicinarsi all' altro, tempia contro tempia, mano contro mano, spalla contro spalla. È una mescolanza che non piace, è una responsabilità, è una scelta, è una maledetta, tremenda scelta. Che non porta mai al risultato sperato, perché ci hanno cresciuto con la convinzione che quel che ci fa stare bene deve essere soltanto bene, e non bisogna far altro che fuggire dal male, qualunque esso sia. Solo che non ci hanno avvertito di un fatto importante, e cioè che il male ci insegue dappertutto, si annida in ogni cosa, il male è dentro di noi tanto quanto il bene, e ci segue nelle decisioni, nelle cose, ci aggancia e non ci lascia più, è sempre pronto a ricordarci quanto siamo poco riconoscenti alla vita, ed è un bene che da questo gioco di opposti poi nasca qualcos' altro, quel che non è un bene è che nessuno vuole più giocare così, ma arraffare a tentoni e senza neanche alzarsi dalla sedia soltanto il buono di ogni cosa, e poi metterselo in tasca, e girare la faccia dall' altra parte.

Una stanchezza collosa corrode ogni centimetro del mio spirito, ed ogni volta ricominciare è più difficile, armarsi è più complesso, resistere è più un atto di coraggio che di lealtà verso se stessi.

Potrei dirvi che la soluzione a tutto questo è amare, amare senza limiti e senza misure, ma non mi sento di spingervi al suicidio, in questo modo così poco onorevole, per una cosa che, tutto sommato, ormai è andata via dal mondo, partita per lidi extra planetari, in cerca di terre più fertili di questa. Incendi di silenzi e di incomunicabilità hanno arso i campi terrestri, abbiamo ancora tutta la cenere tra i capelli e negli occhi. A guardarci bene, sembriamo puliti, non ci vuole niente, in fondo, a riempire una vasca da bagno e ad entrarci dentro, difficile è non uscirne comunque sporchi, ma non è un problema, la catarsi è solo una formalità, è chiudersi alle spalle una porta, e andare via, girare una chiave nella toppa, nasconderla dentro un vaso, e andare via, senza negarsi la possibilità di tornare, magari, ma sapendo di non esserci fino a quel momento, senza sentirsi minimamente in dovere di farlo, stare con la coscienza apposto, insomma. Come? Così.

Ciao, a presto.

giovedì 12 settembre 2013

Oltre la notte.

Stanotte non abbiamo dormito, ci siamo rigirati tutti nei nostri letti, tra le strade, ci siamo rotolati nel sudore dell' attesa, dello sforzo immane di afferrare qualcosa che è distante, i muri che non si abbattono e ci circondano, tutta quella polvere che si alza dopo un crollo e che ci intasa i polmoni, stanotte eravamo tutti vigili ad aspettare che spegnessero anche gli ultimi lampioni, finché tutto è tornato ad essere quel che è sempre stato, buio eterno, oltraggio della vita, tenebra profonda, contrario della luce. Allora ci siamo guardati intorno, tutti quanti, stanotte, e per un attimo eravamo tutti lì, ad un centimetro di distanza gli uni dagli altri, nella profondità estrema di noi stessi, e abbiamo scoperto senza saperlo che le nostre non sono anime separate, ma proveniamo tutti da una sola ed unica anima, l' anima mundi, che ci tiene lontani anche se vicinissimi, ed io sentivo il tuo respiro sul mio collo, e tu sentivi il mio, non si è mai soli nel tormento, ma il cielo ha deciso di morire, di spegnersi, e allora mi sono chiesta, guardandovi tutti senza vedervi gli occhi, se abbiamo capito che possiamo vivere da soli, che possiamo sopravvivere, insomma, dico, ora che abbiamo dimostrato a noi stessi che siamo esseri indipendenti, capaci di creare dal niente, dalla solitudine, ora che abbiamo rinfocato il nostro orgoglio, ora possiamo smetterla di farci del male? Possiamo tenerci per mano senza sentirci posseduti, dominati, controllati, ma soltanto complici? Soltanto protagonisti di un' idea di condivisione? Possiamo afferrare l' esistenza per le spalle, scuoterla, e prenderci quello che cade dalle sue tasche? Adesso che i nostri libri, le nostre melodie, le nostre intuizioni sono lì, possiamo cominciare a fare le persone adulte? Possiamo crescere?

Avanzando nell' insonnia mi chiedo come si possa restare così sordi e così ciechi di fronte a delle forze così trascinanti, di fronte a delle ovvietà che per anni ci siamo negati, vengono fuori ad una ad una le cose, di notte, si arrampicano lungo le pareti dell' anima e vengono a bussarci in gola: le vomitiamo e poi è un fiume in piena di fango, e tutti ci preoccupiamo di preservare qualcosa che riteniamo essere prezioso e solo nostro, niente, non abbiamo niente, non siamo niente, granelli insignificanti nell' universo, quello che diamo è quello che abbiamo ricevuto, nasciamo come antenne che captano segnali, alcuni restano muti una vita intera, non sono veicolo di niente, tra noi e noi stessi non si frappone nessun ostacolo scomodo, quando sentiamo che una presenza ci carezza e ci tira via dallo specchio ossessivo in cui siamo proiettati, è allora che amiamo, l' amore è un dolce ritrovarsi di fronte alla verità, qualunque essa sia, siamo nudi di fronte alle persone che amiamo ed è come se fossimo nudi di fronte a noi stessi, perché l'altro siamo noi, si dice spesso in questi casi amore siamo una cosa cosa, ed è questo, amare è avere il coraggio di restare nudi di fronte a se stessi, senza che un riflesso ci rimandi un' immagine distorta e irreale di noi, un' immagine artificiale, che la nostra mente crea per farci sentire migliori, siamo i peggiori e siamo innamorati, e questo deve riempire le nostre esistenze, dobbiamo avere il coraggio di guardarci e di amarci amando, dobbiamo alzarci in piedi e a testa alta essere fieri di quello che siamo, anche se siamo ben poca cosa, ed è logico, perché non potremmo mai essere stati generati alla maniera del Dante o del Da Vinci o del Chopin, siamo piccoli déi del nostro personale Olimpo, e la maestosità del bello deve essere un' ideale a cui tendere, un binario entro cui incamminarci, senza fuggire la nostra ombra, troppo grande o troppo piccola a seconda della luce entro cui la guardiamo, senza rifugiarci in corpi putridi per l' idea di sentirci più puliti, e le notti che passiamo ad occhi aperti devono servire a questo, devono aiutarci a capire che il sonno e il riposo sono così preziosi, e il resto son tutte balle, perché quello che importa è che nel momento in cui il pensiero tende, la mano tenda insieme ad esso, e afferri quello che brami, ovunque si trovi. Ma nell' oscurità del ventre del mondo le nostre mani afferrano fantasmi di noi stessi, e gli uteri sono fatti di fumo, e i tentativi di tornarci sono inutili, ci stiamo spingendo a fatica dentro il vuoto, che è pure freddo oltre che assente, e allora impazziamo, perché senza rivederci nelle radici dei nostri alberi secolari, senza avvertire il contatto con gli ovuli del nostro passato originario, siamo solo schegge appuntite e folli, stelle morte che vagano nello spazio, l' amore è il contrario della morte, e quando questo attraversa spazi tempi cose persone altri amori corpi sentieri silenzi parole dipinti libri armonie cieli tersi e cieli plumbei puttane e strade schermi al plasma e letti comodi pensieri mutili sensi di inferiorità vendette apatie matite appuntite pupazzi su mensole occhi di bambini occhi di vecchi contrari sinonimi allora è il momento di alzarci dalla sedia, è il momento di partire, le braccia altrui attendono un segnale, il sé si veste, riempie la sua valigia di turbe e complessi, porta via qualche libro utile, e parte, parte, raggiunge l' estrema felicità, perché nell' estrema sofferenza il dito tocca il fondo dell' infelicità, e lentamente risale, c'è un punto piccolo piccolo dentro ognuno di noi dove il dolore si confonde col piacere, ed entrambi ci sembrano così necessari, ed entrambi sono complementari, e neanche pare siano concetti opposti, forse sono sempre stati uniti, come noi, fin dal principio, fin da quando negli uteri delle nostre madri ci cullavamo ignari e già insofferenti, indifesi e già armati.

L' amore è la fine dell' assedio.”

cogito ergo sum.

A cinque anni e tre mesi ho scritto la mia prima, banale poesiola.
Pochi mesi prima mio padre mi aveva regalato un abbecedario, con delle figure colorate molto accattivanti. Se mi giro e guardo in alto alla mia sinistra, lo vedo ancora lì, sulla mensola, che mi fissa come sedici anni fa.
A cinque anni e nove mesi ho cominciato la scuola, entusiasta come se dovessi salire all' altare.
Lì ci hanno insegnato le prime parole, che in parte conoscevo già. Il mondo mi sembrava meravigliosamente bello, raccontato con le parole.
Ci passavo le ore, insieme alle parole. Così arrivarono i primi temini in classe. I riassuntini. Le descrizioni. I 'caro diario'.
Le maestre erano entusiaste ed io ero incuriosita dal mio universo interiore.
A sette anni mi comperarono un giornalino di Hercules, nel quale vi era una pagina dedicata all' alfabeto greco, con il quale invitavano i lettori bambini a scrivere il proprio nome. Imparai tutto l' alfabeto greco.
Nel frattempo mi apprestavo a terminare le scuole elementari, e a chiedere in regalo i primi libri.
Non ricordo quale fu il primo libro che ho letto. Probabilmente 'Il giardino dei Finzi-Contini', del quale non capii un beneamato nulla.
Quando giocavo, ad otto anni, sola nella mia stanza, mi immaginavo maestra: correggevo i miei stessi quaderni ed inventavo appelli per singole classi.
Il tempo libero, durante le scuole medie, lo dedicavo ad annaffiare me stessa come una piantina preziosa: non so cosa mi spingesse a leggere così tanto, ad ascoltare così tanta musica e a scrivere così tanto. Forse l' emarginazione alla quale fui sottoposta mio malgrado dai miei compagni di classe ha giocato un ruolo non indifferente. O forse no. Nel dubbio, vi ringrazio, tutti. Per ogni singola lacrima e per ogni invito mancato.
Spesso entravo in libreria e chiudevo gli occhi: il cuore mi dirigeva verso uno scaffale a caso e il fiuto mi portava le dita su una copertina e su un nome che non avevo mai sentito prima.
A quindici anni le mani afferrarono Fernando Pessoa.
A quattordici, nel frattempo, mi ero innamorata. Uno di quegli amori limpidi, senza filtri, ingenui e sinceri fino alla distruzione del sé. Naturalmente la Letteratura amplificò questo mio sentimento fino a rendere la mia vita invivibile. Così scrissi un romanzo di centosessantatrè pagine per liberarmene.
Il Liceo Classico mi ha profondamente delusa.
Non mi ha fornito gli strumenti per affrontare le difficoltà della vita, e neanche quelli per assorbire decentemente le nozioni che quotidianamente proponeva. Lo studio era solo un mio personalissimo piacere morale. Anche se pensavo a molte cose, il mio tracciato interiore in tacito accordo con la mia mente mi proponeva come ovvia soluzione l' insegnamento e le Lettere Classiche.
A sedici anni ho cominciato a studiare la Filosofia. La prima cosa che mi ha insegnato la professoressa, è a cosa serve la Filosofia. Così, per evitare equivoci. Per evitare che gli studenti se ne chiedessero l' utilità in seguito o, peggio, strumentalizzassero le conoscenze filosofiche per piegarle ai propri percorsi mentali deviati. La Filosofia serve a vivere, signori miei. Ma non a vivere con la testa fra le nuvole, perduti nella confusione (Seneca userebbe qui il termine 'turba') dei pensieri altrui, no. Tutt' altro. Tutto il contrario, proprio. La Filosofia, guarda un po', ti insegna ad avere una Weltanschauung, ossia una tua visione del mondo, un binario entro cui indirizzare la tua anima affinché il tuo braccio si muova bene nel labirinto complicato dell' esistenza. Insomma, la Filosofia ti dice: “Devi trovare una collocazione in un ordine generale dell' Universo!”
A diciotto anni ho letto Freud e Jung, e ho capito che la mente umana è capace di creare creature abominevoli, e di operare in funzione di esse. Inizialmente mi sono spaventata, ed ho cominciato ad osservare in modo maniacale me stessa, i miei atteggiamenti. Quando ho capito che le nevrosi si riconoscono, si impara a tenerle sotto controllo, e poi le si lascia lì, come un segno distintivo, una cosa tua che fa di te ciò che sei, allora mi sono sentita a posto.
A diciannove anni ho capito che se ti senti inferiore, sei irrimediabilmente attratto da chi è irrimediabilmente più inferiore di te: manipolando e apparendo grandi di fronte ad una persona piccola, pur essendo oggettivamente piccolissimi si finisce per credersi dei giganti. E l' Ego si nutre di menzogne pur di gonfiarsi. Soffre, soffre incredibilmente sentendosi costretto ad ammettere i propri limiti. Fugge, vilmente fugge, chiunque gli appaia un tantino migliore di sé.
Al contrario, chi ha un Ego già abbastanza solido, va in cerca di chi gli è pari o superiore, per il desiderio inconscio di essere umiliato, dominato, poiché è una vita che domina, e non ne può più.


A vent' anni non ho capito un cazzo.


A ventuno ho avuto la Nausea.

domenica 1 settembre 2013

Sordomuti.

Quanto costa diventare muti in un paese (mondo) di sordi?”

Costa poco, molto poco, direi che è quasi una conseguenza naturale, un modo per salvarsi dalla follia o dal fallimento, dall' abdicazione, è l' autoconservazione che ci allontana dalla verità, ci manipola, ci porta verso lidi sconosciuti e disabitati che mai avremmo pensato di abitare. Uno di questi è il lido del silenzio e dell' indifferenza: ma forse crescere significa proprio questo, migliorare la propria capacità di ignorare le cose del mondo, uno strato spesso di abnegazione che ci spinge a guardare in faccia il brutto e a proseguire dritto, senza sconvolgimenti e senza moti dell' animo. Sento il rombo di un motore trapassarmi il timpano e scuotermi lo spirito in maniera spiacevole, ma non mi fermo, continuo a camminare, a falciare pezzi di strada, cogliendo con gli occhi la sporcizia di questo mio paese e non provandone più disgusto, ma soltanto indefinitezza, come se tutte le cose fossero lì per un motivo che non mi interessa più, che non ci interessa più: e tu apri la bocca e pronunci parole, e per me è come assenza di suono, anzi, non è come, è proprio così, è reale incapacità di ascoltare, poiché tu che mi stai di fronte non stai parlando, in effetti, stai creando soltanto un po' di inquinamento, ma è un piccolo contributo nell' immensità dello sporco e dell' inutile, e quindi neanche si nota.

Dopotutto cambiamo, siamo tutti cambiati. Chi non cambia, non è. Siamo tutti cambiati, tu mi hai cambiato, io ti ho cambiato. Carezzare il tuo viso mi ha cambiato, ti ha cambiato. Ferirti a morte mi ha cambiato, ti ha cambiato. Li vedi questi sorrisi da fotografia, da momento perfetto, beh, ora sono spenti, spariti: non sono più sugli stessi visi, sono volati altrove, li indossa qualcun altro, e a noi adesso tocca indossare qualcos' altro, non siamo più quelli che eravamo, cambiamo, siamo tutti cambiati.

Cerchiamo qualcosa per cui valga la pena, ma ci accorgiamo che niente vale la pena, e tutto è ogni cosa tranne che necessario, aneliamo alla perfezione perché siamo esseri imperfetti e incapaci di gestire una difficoltà, abbiamo la pancia piena di zucchero e l' amaro ci pare immeritato, e allora diamo immediatamente inizio all' epopea, al gran ritiro; tutti i ritorni vigliacchi ai nostri punti di partenza sono mostri tremanti e impauriti che dalle nostre stanzette umide puntano il dito contro il sangue che non abbiamo buttato e il sudore che non abbiamo prodotto per conquistare qualcosa che poteva essere veramente prezioso. Preservare il prezioso e il bello devono essere oggi doveri morali dell' uomo. Devono assumere un senso definito, IL senso. Altrimenti possiamo trascorrere tutta la vita sulle nostre mediocri scialuppe in mezzo al mare in tempesta nell' attesa spasmodica di morire annegati, perché è quello che vogliamo, in fondo, tutti. Morire. E non lasciare traccia, per evitare che pure la nostra ombra venga rincorsa dalle leggi della natura e dell' uomo. Vogliamo fuggire, e vogliamo farlo senza stile, perché l'eleganza è un dettaglio nella resa, figuriamoci nella battaglia, se battaglia si può chiamare il tentativo flebile di ottenere tutto senza fare assolutamente niente.

E allora si dice che è Nausea quella che ci sale in gola, e ci brucia come succo gastrico andato a male, si dice che è ricerca, si dice che fa bene, ma un tormento senza scampo e senza fine è un modo vile per ritirarsi dalle scene senza ammettere di essere vili, una viltà della viltà, e allora prendiamoci tutti per mano e andiamocene, domani è lontano e ieri lontanissimo, oggi non esiste, è tutto un limbo dove ci piace restare appollaiati a fingerci pensatori, e cari miei è così ovvio, perché agire costa, e le energie sono poche, soltanto i pazzi le disperdono tutte al vento senza esserne gelosi, e senza ragionare sul fatto che poi, senza energie, è impossibile vivere, e appena sostenibile sopravvivere. E quindi basta, basta lamentarsi di ogni cosa, la scuola che non funziona, l' amore che non esiste, i genitori che non sanno educare adeguatamente i loro figli, che non ci sanno educare solo perché non si comportano come noi ci aspettiamo che facciano, sempre perché siamo dominati da un egocentrismo di dimensioni spropositate, presi da noi stessi in maniera maniacale, animali feroci che avvertono la presenza dell' altro come un pericolo e aborriscono l'idea di dedicare tempo altrui, non ascoltiamo nessuno, non vogliamo davvero bene a nessuno, non ce ne frega assolutamente niente di nessuno se non di noi stessi, amare è attentare alla nostra libertà personale, di cui poi fondamentalmente non ce ne facciamo un beato cazzo se non la condividiamo, ma questo poi lo capiamo troppo tardi, e tutto sfuma, di nuovo, inafferrabile, lontano.

Con tali premesse mi chiedo dove crediamo di andare, come pensiamo di poter cambiare le cose, di poterle migliorare, mi chiedo cosa intendono oggi le persone che parlano di 'miglioramento', mi chiedo se sanno che la radice greco-italica del termine migliore, che è màl, significa nient' altro che 'forte, valente', mi chiedo come si possa concepire un miglioramento se le menti che ci lavorano sono tutt' altro che temprate, pronte al lavoro duro del giorno dopo giorno, coraggiose. Mi sembra che pure le parole ci stiano abbandonando, mi sembra che tutto stia per implodere, da un momento all' altro, e io voglio fuggire via da tutto questo con le mie parole, andarmene sull' isola delle etimologie, risalire così all' origine delle cose e ai suoi concetti primigeni, per stringerne il senso e sentirmi al sicuro.

Poi mi dico che scappare non è la soluzione. Chi vuole migliorare non scappa, perché è forte, valente. Perché ha lo spessore morale e la determinazione di stringere i denti, di attendere, di lavorare attraverso le minuzie accumulando faticosamente piccole vittorie quotidiane sentendosi poi sufficientemente appagato e sufficientemente non soddisfatto da riuscire ad andare avanti con altrettanta fame e altrettanta voglia di lottare senza arrendersi.

E io voglio provarci, a migliorare.

sabato 31 agosto 2013

Cercavo una puttana, ed ho trovato una puttana.

Il presente è un agglomerato di fantasmi passati e di illusioni future, il presente, laddove esiste, per me è questo: un groviglio di cose che sono già state e di cose che forse non saranno mai, viviamo un presente in assenza di noi stessi, un presente irrisolto, involuto, dove ci rifiutiamo di essere i protagonisti del nostro stesso dramma, non abbiamo più la presenza scenica di un tempo, siamo tutti gobbi e stanchi, ombre di quel che eravamo, e non ci conosciamo più, semmai ci fossimo conosciuti, fatti a brandelli dalle fiere di ieri che ci masticano e ci tengono tra i denti. Sentiamo ancora l' odore delle nostre carni in putrefazione, ma chi è che avverte la morte, chi può dire di essere certo di qualcosa, io no, no di certo, questo è il presente, un palcoscenico vuoto senza spettacoli in programmazione.

E' come quella puttana che incontro sempre, da anni, sui treni metropolitani. A metà tra l' assenza e la presenza, tra il trasparente e l' ingombrante, una figura vuota che non potrebbe essere più piena, sta a noi leggere quello che ha da offrire, due righe di dolore e tanta meccanica, i suoi capelli corvini, folti e disordinati, le scarpe sempre troppo alte, la gonna sempre troppo corta. Gli occhi sempre ambivalenti, splendenti e spenti, luci tetre e spettrali che fanno appena appena chiarezza negli angoli delle strade. Lei resta la stessa, io cambio. Lei due anni fa era seduta a tarda sera in quello scompartimento, immobile, seria, sostituita. Io ero in piedi e scoppiavo d' amore: la guardo, la fisso, resto in attesa di lei; non mi arriva nient' altro che tristezza. Dunque questa sensazione fortemente negativa arriva fino all' altezza del mio petto e mi restituisce un contraccolpo feroce: mi manca il respiro, la gioia massima e la massima sofferenza creano una trazione insopportabile. Lacrime calde e cremose mi salgono agli occhi, un conato mi spinge a cercare il cesso, ci entro, faccio per vomitare, non vomito, piango, bevo le mie lacrime, cerco di respirare forte. Parte la commiserazione, e tutta una serie di emozioni incalzanti che tendono al desiderio irrisolto di fare del bene a chi non è felice, per il solo fatto che se lo siamo noi ci pare insopportabile che esista chi non lo è. Tutti hanno un motivo per esserlo, o hanno il dovere morale di cercarne uno. Ti sbagliavi, cara Eleonora di un tempo, tutto è troppo dannatamente malato e lercio per riuscirci a trovare sempre e comunque una ragione lucida e brillante.

Due anni dopo, pochi giorni fa, ho rivisto questa stessa puttana, su un treno che tornava da Pompei, dove ero stata, da sola, senza neanche sapere perché. Succede che vuoi alzarti e vuoi prendere un treno e andare in un posto, senza nessuno che tenti di dissuaderti per mezzo di frasi fatte o cerchi di convincerti che la realtà è meglio di quella che si vede. Anche stavolta, dunque, resto tutto il tempo del breve viaggio a fissarla. Avverto forse uno scoraggiamento ancor maggiore provenire da quel corpo: settecentotrenta giorni e sono comparse delle rughe sul suo viso, all' altezza delle guance, e gli occhi sembrano di un marrone più opaco, come in una fotografia sfocata, d' altra parte le labbra sono più gonfie di rossetto e meno di carne, e il collo è pieno di macchie scure. I vestiti sono volgari quanto basta, ma messi a casaccio; si intravede il reggiseno di un colore inadeguato e c'è un buco nella gonna. I sandali sono pieni di polvere e il tacco sembra mangiucchiato. La borsa, sempre la stessa, nera, grossa, deforme, sembra contenere qualcosa di mostruoso, di viscido. Le mani sono aste di metallo piegate da una forza violenta, c'è anche del nero appena sotto le unghie. Vederla così, oggi, mi fa sentire a posto. Mi fa sentire beatamente indifferente. Sufficientemente desolata. Assolutamente malinconica, ma di una malinconia statica, di quelle che le cose ti scivolano addosso, che fosse sangue sconosciuto, o acqua bollente, la reazione sarebbe la stessa: nessuna. Vedo nei suoi occhi i miei occhi e non mi smuovo: parte un filo di niente e si collega, restiamo in contatto col niente di nulla, è una sensazione di rilassamento totale, un abbandono che sa di trasporto, il baratro che gli anni e le esperienze hanno scavato nell' anima e nel corpo di quella donna è oggi a me più comprensibile e più sopportabile, perché mi sono resa conto della sua inevitabilità. E non è un male, lasciarsi portare dalla corrente, se siamo stati condotti fin qui, è colpa mia, è colpa tua, è colpa della puttana per il suo aver scelto di fare la puttana, beh, questo è infinitamente relativo e evidentemente insignificante. Quello che importa è che ci hanno vuotato un secchio di merda in testa, e noi siamo rimasti impassibili. Non c'è più scontro di forze opposte e feroci, ma semplicemente incontro di non forze. E tutto, sopratutto il dolore, oggi è più dolce e quasi ci fa godere.

La prostituta scende dal treno, in questa stazione squallida di questo nostro squallido paese, ancora più squallido delle nostre espressioni, nell' ombra indecisa della sera, quando hai quasi paura che stia per fare di nuovo giorno anziché calare la notte. E se è vero che nessuno si salva da solo, nessuno si salva neanche in due, e di fronte a questa verità inappetibile il mondo fugge, e si cercano mille ragioni, mille diversivi, mille modi di dire la stessa identica cosa, e cioè che non abbiamo le palle per vivere davvero questa vita così com'è senza aspettarci nulla e senza aver paura di nulla, e cioè che non siamo in grado di imporci i nostri doveri e le nostre responsabilità, che siamo cani sciolti, pronti a scopare per le strade ma vergognosi di amare oltre ogni difficoltà, bestie vili che girano attorno alla propria coda pur sapendo che non è di nessun altro.

La prostituta scende dal treno, e anche io, e mentre lei perde temporaneamente una scarpa, io sbatto con la caviglia contro il gradino del sottopassaggio. Mi guardo scorrere qualche goccia di sangue e continuo a camminare nella sera che arriva, mentre lei mi resta alle spalle, ad allacciarsi il sandalo maldestramente e quasi contro voglia.

Non mi giro indietro.

Per me, il senso della vita, è tornare a casa di sera e trovarci una parte di me, messa al riparo, conservata, lasciata al caldo a riposare. Così, se anche dovessi perdermi nel caos del mondo, saprei che ritrovarmi, a fine giornata, è cosa facile e piacevole. E' autoconservazione, è romanticismo, è astuzia? Non lo so. Ma è il mio codice per leggere il mondo. E non lo cambierò, mai, anche se dovessi morire e dissolvermi prima di aver trovato lo scrigno giusto che possa custodirmi.
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sabato 24 agosto 2013

I regali di Natale.


"Il volere precede dunque ogni cosa: infatti le forze della ragione sono per natura ancelle del volere."


Te lo sei chiesto un sacco di volte, perché ai tuoi genitori il Natale non piacesse così come piaceva a te, da bambino. E per quanto volessi concentrarti sul trovare una spiegazione, in fondo non avevi tempo, c'erano dei giochi a cui dovevi prestare tutta la tua attenzione, e non c'era neanche un minuto da perdere.

Già, un minuto da perdere.

Quanti minuti perdiamo, adesso che il mondo ci definisce quasi adulti, sospesi nell' oblio di una condizione senza scampo e senza paura, che affrontiamo di petto come se volessimo vestirci col vessillo del nostro coraggio inesistente, che si scontra costantemente con la pochezza intellettuale dei luoghi e delle situazioni che ci stanno attorno. E' facile, in altri termini, fissare il vuoto per ore e fumare l' ennesima sigaretta, non c'è nulla di male nell' inazione, non c'è nulla di male. Riflettere fa bene, dicono. Dicono che le gambe poi ti fanno male se cammini troppo. E devi comunque fermarti per riprendere energie. Dunque, perché sprecarle queste energie? E in ogni caso, dov'è che sono queste energie? Io non ne ho più. Le ho consumate tutte per giocare coi regali di Natale.

Ci stiamo perdendo in un labirinto indistinto di cose da fare, e di cose da evitare. Come se ci avessero affidato tutti gli errori e tutte le chiavi delle prigioni mentali, possedimenti antichi delle passate generazioni, col compito di rimediare a tutto, di riprenderci la nostra e la loro libertà, a tutti i costi e con tutti i mezzi. E così strappiamo le nostre costruzioni sentimentali dopo averle arredate nel più piccolo particolare con un calcio impietoso. Perché è necessario dar sfogo alla propria istintualità repressa. Represso è una parola che non piaceva ai nostri genitori, quando avevano la nostra età. A noi non piace la parola rispetto, ad esempio. Sacrificio, responsabilità. Esistono universi fatti di negatività piena, abitati da persone che sono veramente stanche di vestire di stracci e di elemosinare virtù agli angoli dei cuori altrui. Rispetto, sacrificio, responsabilità. Trovarsi davanti ad una bestia immonda che riesce a succhiarti l' anima con un bacio in bocca e nello stesso tempo a strapparti gli organi con una lama affilata è diventato una specie di rito iniziatico, attraverso il quale tutti sembra dobbiamo passare prima o poi. Una sorta di battesimo del reale, tanto per evitare che qualcuno resti convinto fino alla fine della bellezza assoluta dell' esistenza e della purezza incontaminata della natura. Il male è dopotutto una costante da assaporare fino in fondo, poiché si porta dietro il fascino della morte. E tuttavia sono secoli che la morte appare più sensuale della vita per poi rivelarsi soltanto più anestetica.

Il bambino, dopo essersi annoiato dei suoi stessi giochi tanto bramati, sbatte e ribatte la testa contro il muro che lo rinchiude all' interno di una stanza dalle pareti bianche. Finché macchie indistinte di rosso non cominciano a disegnare strade di sangue da intraprendere. E allora tu, che sei seduto a fumare fuori al tuo balcone mediocre, spegni la tua sigaretta, e per non sentire il terrore che monta da dentro e stringe la gola ti alzi, per squarciare il velo dell' immobilità afosa, per conquistare un minimo di dignità agli occhi di te stesso, e te ne torni dentro, per continuare la tua passeggiata inutile dentro i viali dell' insensato.

Tocchi, tocchi tutte le cose che vedi, quando sei bambino. E se non le tocchi non ti si tolgono dalla testa, quelle cose, continuano ad ossessionare il tuo sonno e la tua veglia, finché poi per inesorabile natura acquisisci una serie di indispensabili esperienze secondo le quali dovresti vivere decentemente in nome di un codice personalissimo. Di quel codice, però, oggi noi non ce ne facciamo proprio niente. Resta una specie di bel quadro affisso in cameretta, un paesaggio di pastello da contemplare per evadere dal circostante. Una teoria. Maledetta pratica. Che ci porta ad esplorare lidi dei quali non avremmo mai potuto avere conoscenza. Nessuno legge e interpreta niente alla stessa maniera, se non contestualizza il suo testo. Badare al contorno è così faticoso che si preferisce afferrare alla cieca e altrettanto alla cieca possedere tutte le cose. Perché quello che conta è il momento. L' hic et nunc. Peccato che sia tutto un hic et nunc. Anche il futuro. Che invece diventa un losco individuo da evitare, roba da scappare solo a vederlo dal lontano.

Tutto il sangue che ho perso dalla testa ha disegnato sulle mie pareti luoghi che non vedrò mai. Se vengono dalla mia testa, mi dicevo, non possono che essere reali. Non sono stata io a disegnarli. Qualcuno me li avrà messi dentro. In attesa che li rivelassi a me stessa. Fosse stato così semplice. Fossi stata meno convinta.

...

Ed è vero che il nostro tempo è limitato che siamo di passaggio che la luce del sole dovrebbe darci un motivo validissimo per muovere i piedi sulla terra è vero anche che siamo malati però malati di questa stessa vita che qualcuno gioca a darci e poi a toglierci a strapparci dalle mani e forse è per immagine e somiglianza di questo dio crudele che ci facciamo del male godendone e non siamo più uomini ma siamo maiali e se ci sgozzassero adesso forse se le mani fossero quelle giuste non ci dispiacerebbe neanche in fondo durante tutto questo tempo non ho fatto che immaginare una vita che non avrò mai e tutta quella felicità dov'è che è andata a finire tutto l' entusiasmo dei regali di natale e tutta la voglia di dare all' altro quello che avevo e quello che non ho di inventarmi vesti migliori io non ne ho più mi fanno spostare gli arti tutta una serie di grovigli curiosi e un forte istinto all' autoconservazione come siamo attaccati alle cose dopotutto alla vita come siamo innamorati di tutte le cose che ci devastano siamo veramente malati di esistere.


Lettera aperta ad una donna che aspetta alla stazione.

La mia vita è spezzata, come una matita nel momento di più bieco furore.
E ora guardo i due pezzi di legno giacere sul tavolo, carichi delle loro schegge, irregolari nella loro forma, con una mina dispersa, polverizzata, che percorre a semicerchio la superficie della scrivania.
Cara ragazza che stavi alla stazione, l' innamorato è sempre quello che aspetta, Barthes insegna. E tu aspettavi, e piangevi, e sono passate due ore. Hai aspettato per due ore qualcuno che non è venuto, e forse continui a farlo, giù, in strada, mentre la notte va, ed io mi ritiro nella mia stanza silenziosa.
Avrei voluto chiederti se avevi bisogno di aiuto, dirti che era bene che piangessi tutte quelle lacrime, perché il dramma reale è di chi le lacrime se le tiene dentro, creando un' inondazione dell' anima, allagando se stesso. Perché piove sempre da qualche parte. Il cielo può essere di un azzurro spiazzante, e il suo sorriso meraviglioso, ma stai certa che sta pur piovendo da qualche parte. E se è proprio dentro a piovere, allora trova un modo per uscirne. Per uscire da te stessa, dico. Vattene via. Salvati, e lascia che il tuo corpo muoia affogato dal suo stesso dolore. E' così che io vedo il mio. Sono uscita da me e mi sono arroccata da qualche parte sulla punta dei miei capelli sopra la mia testa. Da lì a gambe incrociate osservo tutto quello che succede al mio interno nel frattempo: le onde di sale travolgono organi e sbattono forte sul cuore, una risacca scorre tra le costole con un fruscio costante, e gridano disperate le vene sottopelle, poiché il sangue fuoriesce da qualche parte che non so, e diventa di un rosa pallido a contatto col mio pianto.
E lascio compiere a Dio questo ennesimo spreco di bellezza; lascio che la follia uccida l' amore che a sua volta uccide un uomo il quale ha ucciso me. E' tutto splendidamente regolare, tutto codificato nell' indecifrabilità dell' universo stesso, direi quasi prevedibile, perché poi abbiamo sempre questo brutto vizio di credere che ogni cosa orrenda e inaspettata accada a chiunque tranne che a noi stessi, e poi un giorno ti piomba addosso la verità, cruda e nuda come non lo è mai stata, con quel sapore di carne sanguinolenta e con quella brama di penetrarti lo spirito, fino a trapanarlo e a renderlo un pallido riflesso di ciò che era.
Mia cara ragazza che piangi e attendi un segnale, incamminati. La mente riesce a generare degli abomini fin troppo credibili, degli aborti di pensiero, degli escrementi di azione. Tutto questo senza che nulla riesca ad arginare la pioggia, a metter lo zucchero nelle lacrime. Nella profonda saggezza di un Dio che non ci guarda io vedo la banalità degli individui che siamo: riesco a trovare sollievo alle mie sofferenze soltanto pensando in termini universali. Incamminati, dicevo, non restare ferma in questa oscurità violata come un velo nero squarciato dal vento che da' sul nulla: potrebbe essere molto pericoloso restare fermi, potrebbero caderti in testa astri esasperati, e farti del male, perché più grossi, spigolosi e meno luminosi del consueto.
Io ho la testa fasciata, e le mie mani non hanno più le dita. Un tempo suonavo melodie traverse e facevo vibrare archi sconnessi, e per quanto facesse schifo la musica che componevo, era la mia, la mia musica. Il mio codice per leggere le cose dell' esistenza. Qualcuno, poi, nella gola della notte è entrato ed ha trovato i miei spartiti. Per furia e per insensatezza li ha portati via, in un luogo così sinistro che è proibito al pensiero immaginarlo, pena la pazzia. E io li ho persi. Ho perduto la mia casa, dal mio corpo è fuoriuscito tutto il marciume maleodorante che potessi concepire, fango e sputo hanno cementato una prigione di solitudine indicibile. Sono di nuovo, irrimediabilmente me stessa, mi guardo uscire dall' utero degenere di mia madre senza una ragione al mio destino di orfana, perdente e in minoranza dappertutto, sempre.

sabato 20 luglio 2013

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I disastri maggiori nascono dall' incapacità di gestire una pluralità. In alcuni individui tale pluralità non si presenta, ed è più facile. In altri, invece, l' anima si manifesta così, plurale: vuoi per un' accentuata curiosità, vuoi per un' acutezza intellettuale superiore, vuoi per un fortuito caso. Ebbene, chi nasce con un' anima plurale ha il dovere morale nei confronti di se stesso e del mon...do di educarsi alla corretta gestione del proprio Io, rischiando, altrimenti, di generare un meccanismo corrotto e vorticoso, un pensiero circolare all' interno del quale il soggetto passa da un' idea all' altra senza smettere mai di non-essere; non già come i sofisti, nobili e scaltri possessori del proprio Io e del loro opposto, manipolatori del pensiero, ma come belve irragionevoli ed affamate, condannate a non cibarsi mai di nulla poichè non hanno la capacità nonchè la lucidità di discernere il commestibile dal velenoso, prese come sono dai loro terrori incontrollati, dai loro istinti insaziabili. Chi ha un' anima plurale è condannato alla riflessione, alla meditazione, alla convivenza scomoda con se stesso: solo se dialogherà costantemente con tutte le sue parti in causa, ponendosi tra loro come mediatore e risolutore di dispute, solo se i suoi occhi incontreranno centinaia di righe vergate dai Maestri del pensiero, solo se vivrà in nome dell' umanità dei sentimenti, vivrà una vita dignitosa e soddisfacente. In caso contrario, errerà senza possedere nulla, poichè in primo luogo non possiederà se stesso, e dunque non potrà scegliere neanche di non possedere, poichè non saprà discernere il possesso dal non possesso, l' amore dal sesso, l' abitudine dalla struttura: vagherà tra le terrene sorti disgraziate mentre un inguaribile male lo divora dall' interno. E' questo male è la negazione di se stessi, ed è un male terribile, perchè lo ha generato il caos: e se al caos non subentra il cosmos, allora per l' uomo non v'è alcuna possibilità di vita su questa terra.

E' solo un altro giro di giostra.

Questa sonnolenza è uno stordimento dell' essere che necessita solo di se stessa: un vortice dal quale è difficile uscire, perché intorno a me non c'è nessuno in grado di tirarmi fuori. La mia anima ha bisogno di lunghi silenzi e di giornate di stasi: tuttavia io la sforzo, perché è opinione comune che a fermarsi, in questi casi, c'è il rischio di affezionarsi troppo a certi fantasmi che poi non vanno più via. Ed è per questo che oggi sto scrivendo, per celebrare in qualche modo che ancora non so prevedere la fine del mio primo ciclo di studi universitari, poiché circa quattro giorni fa, (solo quattro giorni fa, e mi sembra che siano passati mesi) in condizioni oserei dire più che pietose, ho dato il mio ultimo esame. Il giorno dell' ultimo esame mi sembrava molto, molto lontano, quando ho cominciato questo percorso esattamente tre anni fa: ero convinta che in tre anni la mia vita sarebbe stata stravolta, cambiata, rovesciata, che io sarei cresciuta e che non sarei stata più la stessa, che centinaia di eventi mi avrebbero travolta costruendo una rinnovata esperienza di vita, ed in effetti così è stato, è così era giusto che fosse, ma mai, mai, neanche nei miei peggiori incubi avrei mai creduto che l' ultimo esame io lo facessi nel modo in cui l' ho fatto e cioè completamente sola, totalmente annientata come donna e come persona, digiuna da quasi una settimana e confusa all' inverosimile sul programma da preparare ed esporre. Eppure, amici e nemici miei, l' ho fatto. Ho fatto l' ultimo esame. L' ho fatto, e mi è anche andata bene. Ho preso un altro trenta. L' ultimo di questa triennale. Tutto si è svolto secondo la regola, senza che l' esito della mia preparazione venisse scalfito dal baratro nero che avevo dentro. Non mi ha divorata, non ce l' ha fatta. In qualche modo che ancora non so io sono stata più forte di lui. Ho stretto il pugno e i denti fino a farmi male. Ho studiato inzuppando il libro di lacrime, e non voglio la compassione di nessuno, perché non ne ho bisogno. Ho lottato contro la verità amara e incontrovertibile che le cose succedono senza meriti e demeriti, perché anzi, quanto più dai amore tanto più sei destinato a diventare cenere: chi sa portarti per mano è possibile che un giorno o l' altro questa sua mano la strappi via dalla tua, che ti dia una spinta, che ti faccia cadere, rotolare sull' asfalto, romperti le ossa, graffiarti il viso e le ginocchia, e che ti guardi mentre succede tutto questo senza colpo ferire, e che poi si giri e se ne vada, senza mai più voltarsi indietro. Succede, è naturale, non siamo esseri perfetti, nè angeli, il peccato e l' errore sono a noi congeniti, e allora tu puoi fare due cose, entrambe dolorosissime e senza una riuscita certa a breve termine: o resti a terra, sul cemento striato del tuo sangue, inerme, con gli occhi chiusi, e ti lasci morire lentamente nell' attesa che passi un camion a tutta velocità, o ti trascini faticosamente sul ciglio della strada e tenti di rimetterti in piedi. Quando ho provato a camminare sulle mie gambe, il primo tentativo è stato più che fallimentare: mi bruciavano gli organi interni e sembrava che mi avessero strappato il primo strato di pelle, tanto che mi faceva male addosso anche solo l' aria che respiravo. Le gambe hanno ceduto non so quante volte, prima di riprendere stabilità: una volta in piedi, ho cercato di accennare a qualche passo. E sono caduta, rovinosamente. Dunque ho tirato un lungo sospiro, e una valanga di pietre e fango mi ha sommersa. Ho preso coscienza all' improvviso di una verità che avrei vilmente preferito ignorare per il resto dei miei giorni: Eleonora, hai fatto una grandissima cazzata. Si, in fondo lo hai sempre saputo che avevi fatto una grandissima cazzata, ma finché si è giovani, e si hanno tutti i capelli in testa, ti senti addosso un coraggio svergognato di investire. Lo hai inflitto, e lo hai subito. Lo hai inflitto, e lo hai subito. E la vita gira e gira e gira sempre uguale per tutti. Ma, la cosa più atroce di tutte, è che se non avessi compiuto questo errore fatale, mai mi sarei accorta di quello che era reale, e davvero importante per me, in fondo. Probabilmente avrei vissuto con degli ingombranti rimpianti, e non sarei maturata, né mi sarei chiarita tutti i miei dubbi interiori. Ne vale la pena, non ne vale? Come ho imparato a mie spese a volte è giusto fare la cosa sbagliata, e non per un eccesso di zelo, né per presunzione, ma soltanto perché in un determinato momento della tua vita ti accorgi che, anche contro ogni logica e ogni sentimento, la cosa che devi fare è quella. Punto. Dove ti porterà solo Dio può saperlo, e se la strada è un vicolo cieco, allora potrai finalmente dire a te stesso: si, avevano ragione nel dire che stavo sbagliando, ma se non avessi sbagliato non lo avrei mai saputo. E questo è. Questo vale più di ogni altra cosa, poiché l' uomo spesso finge di non essere quello che è: un inguaribile egoista. Un pallone gonfiato, un egocentrico, insoddisfatto di ogni cosa. Allora adesso mi direte, o penserete: mi dispiace, oppure, ti sta bene, stronza. Non importa. Non è importante. L' importante è che so chi sono, e so quello che voglio. Se non posso averlo, anche questo, è poco importante. So aspettare, e mi tocca una lunga attesa adesso. A piccoli passi ho raggiunto un posto dove potermi leccare le ferite e medicarle alla bell' e meglio. Ora devo aspettare che tutto cicatrizzi per guardare in faccia la realtà senza rimanerne abbagliata. Ringrazio tutti coloro che mi sono stati vicino, che hanno cercato più o meno invano di farmi capire come stavano le cose, di strapparmi dalla faccia il velo sbiadito dell' errore, dell' irragionevolezza. Ringrazio chi mi ha spinto anche duramente a continuare nello studio, senza lasciare la presa, e chi mi ha invitato a riposare, e a rimandare, poiché nessuno è perfetto, e la fallibilità è umana, e non c'è da vergognarsene. Ringrazio la casualità degli eventi e me stessa per aver portato a termine ugualmente il mio percorso universitario, e per avermi regalato mezz'ora di lucidità, attraverso la quale conquistare ciò che adesso conta più di ogni altra cosa. I 'se' sono così belli da pensare, peccato che non abbiano riscontro reale. Se avessi ignorato me stessa, la mia vorace curiosità. Se fossi stata lungimirante. Se avessi riflettuto ancora e ancora, di più. Se avessi capito la verità senza ferirmi prima a morte, ferendo di riflesso un sacco di altre persone. Se potessi rimediare a tutto questo. Io non lo so, non voglio e non posso vivere di se.Voglio vivere di me. E cercare di dare il meglio, di dare purezza e limpidità di pensiero e di sentimento, senza covare rancori, senza nutrire paure. Senza guardarmi indietro, ma andando sempre avanti. E se sul mio avanti riuscissi col sangue e coi denti a riportare ciò che stupidamente ho lasciato indietro, allora sarei totalmente felice. Ma quello che pure ho imparato è che siamo comunque e sempre devoti soltanto e prima di tutto a noi stessi: l' autodifesa è la prima delle necessità. Io oggi mi spoglio di tutte le difese, perché mi sono fatta così male da non poterne provare più. Sono satura di dolore, e se volete, potete rovesciarmene altro addosso, non importa, non è importante. Quello che è importante è dire la verità, sempre, a se stessi, e poi agli altri. Io la verità finalmente la vedo chiara. E' tardi, è presto, è giusto, è sbagliato? Non lo so. Ma me la sento tutta dentro. Ed è quasi ora che, con discrezione ed educazione, cominci a spuntare un po' fuori. E poi sia quel che sia.

martedì 16 aprile 2013

Un altro giorno è andato.

Rispetto e dedizione sembrano concetti negativi, minoritari, sintomi quasi di inferiorità supposta e di vile sottomissione. Una società che si fonda sulla violenza e sulla prevaricazione non avrebbe potuto generare frutti migliori. Quindi volgo lo sguardo dall' altra parte e lascio carta bianca sul tavolo: scrivetela voi la storia, io ho voglia di riposare.
Mi fa male forte la testa a pensarci, a combatterlo, questo vuoto di senso e di umanità. Questa dialettica del 'soccombi tu o soccombo io, nessun compromesso' sta invadendo fastidiosamente ogni campo della mia esistenza, e contro di essa non posso nulla, e nulla potrei, se non essa stessa, che appunto rifuggo. 
Le pagine della letteratura che leggiamo e di cui ci facciamo portavoce sono carta straccia ormai, utili soltanto a confondere le idee, a renderci avulsi da un contesto reale che ha rovesciato in un tempo sconosciuto tutto un sistema di valori e di forze positive un tempo animatrici piacevoli della nostra esistenza. Chi si occupa della loro trasmissione, soltanto i pazzi, gli anziani, quelli che non hanno vissuto davvero, che non conoscono nulla della vita, la vita, la vita, chi lo sa che cosa intendono per vita, quelli che la sottraggono dagli occhi e dalle mani dei poeti.
Ma alla fine, i poeti, sono sempre soli. Lì, tra le loro carte confuse, a pensare, pensare, mentre la vita gli scappa di mano, li supera, e va avanti, si svolge sotto le luci al neon dei locali, dove i ragazzi si accoppiano come conigli, per le strade, dove i vagabondi ebbri infastidiscono i passanti, e poi basta, da nessun altra parte, perché il mondo è soltanto questo, si sta ritirando, l' universo sta già tornando indietro, si è già ristretto, ha già cambiato idea.
Ed io non so rassegnarmi al tempo che va, e nemmeno a questo tempo che è ora; cerco la mia dimensione dovunque ma non in me, e certa di non poterla trovare neanche nell' amore più sincero me ne vado a casa, sconfitta, per l'ennesima volta. Un altro giorno è andato, con le sue scoperte, le sue piccole gioie, i suoi dolori sopportabili.

lunedì 14 gennaio 2013

no.

Erano alcuni giorni che desideravo sedermi alla scrivania e buttare giù due righe, che fossero anche le più banali del mondo, non importava. Ma non ho avuto neanche un secondo a disposizione per rendermi conto di quello che mi accadeva intorno (cioè fondamentalmente niente) poichè subito le ventiquattro ore volgevano al termine e ancora piene di cose ancora da fare. Stasera ho deciso di prendermelo questo briciolo tempo, e basta. Via, ormai è troppo tempo che non scrivo, seriamente o meno, non ha importanza.
Molte considerazioni sulla vita, in questi giorni, abbastanza superflue anche. Esami da preparare, impegni da portare a termine, cose così insomma. Non c'è stato un attimo di tregua, e continuerà a non esserci per il prossimo mese e mezzo. Considerando che mi aspetta di conoscere parte del mio destino, poi. Tra un mese, dico. Ma questa è un' altra storia.
Molte considerazioni sulla vita dicevo, appunto, e altrettante altre sulla morte. Lugubri pensieri prima di prendere sonno, che spesso mi impediscono di prenderlo questo benedetto sonno.
Vibrazioni che arrivano e che come arrivano passano, sempre di fretta. Non si fermano neanche il tempo di guardarle di occhi. E la mia mano ciondola di fianco al mio profilo troppo stanca per tentare di afferrarne qualcuna.
Mi sento in attesa di un perenne niente.