Vettriano

Vettriano

domenica 25 settembre 2011

Bah.

Mi sento come il contenuto delle lettere d'amore a Lili Brick: banale e vuota.
Vivo in questa cittadina immersa nella spazzatura e nell'odore di benzina da vent'anni. Non conto più i giorni che si susseguono sul calendario. Quelle buffe crocette che segnavano il passare del tempo, e che scandivano attese e rimpianti, avvicinandosi e allontanandosi da particolari eventi gioiosi o nefasti che siano, non ci sono più, neanche nel mio cuore.
Potrei dire che ho finito i pennarelli, e che non ne ho voglia di comprarne altri, ché tanto non mi son mai serviti, neanche da piccola, perchè detesto e sono incapace nel disegno. In realtà non è così, non proprio, almeno.
Alla signora del quarto piano non piacciono i maglioni: detesta l'inverno, ed è contenta che questo caldo appiccicaticcio e sudicio continui ad affliggerci. Forse è vero, sono troppo egocentrica. O forse sono gli altri ad essere tremendamente odiosi e cinici. Il fatto è che uno al mattino si sveglia come sempre, scazzato ma riservato, silenzioso; insomma, senza alcuna voglia di riversare sugli altri il benchè minimo malessere. Quindi si alza dal letto impastato di sonno e sudore, liscia le lenzuola per bene, apre la finestra, va a lavarsi, pulisce tutto quello che deve essere pulito, e così via. E va bene, ok, va bene così, niente di nuovo. Però non è giusto, non è giusto che mentre tu taci e mantieni, gli altri vogliano sfogarsi su di te, provocandoti e avanzando illazioni che nascondono da profonda invidia e tremenda paura. Non è giusto che si venga considerati un burattino da dirigiere, nè un oggetto da posizionare su una mensola, la stessa, per sempre, nè, tantomeno, un cane.
Un cane ce l'avete ora, porco dio, perchè non mi lasciate in pace, dunque?
Bah. Buona domenica.

mercoledì 21 settembre 2011

Juego del revés.


6.

L'arroz de cabidela aveva un sapore raffinatissimo e un aspetto ripugnante, era servito in un grande vassoio di terracotta con un cucchiaio di legno, il sangue e il vino bolliti formavano un sugo denso e castano, i tavoli erano di marmo, fra una fila di botti e un bancone di zinco dominato dalla corpulenza del signor Tavares, a mezzanotte arrivava un fadista dall'aspetto macilento accompagnato da un vecchietto con la viola e da un distinto signore con la chitarra, cantava antichi fados fiochi e languidi, il signor Tavares spengeva le luci e accendeva le candele sulle mensole, gli avventori di passaggio se ne erano già andati, restavano solo gli affezionati, il locale si riempiva di fumo, a ogni finale c'era un applauso discreto e solenne, qualche voce chiedeva Amor é agua que corre, Travessa da Palma, Maria do Carmo era pallida, o forse era la luce delle candele, o forse aveva bevuto troppo, teneva lo sguardo fisso e le sue pupille erano grandi, la luce delle candele ci ballava dentro, mi sembrava più bella del solito, accendeva una sigaretta con fare trasognato, ora basta, diceva, andiamo via, saudade sì ma a basse dosi, è bene non farne indigestione, l'Alfama era semideserta, ci fermavamo al belvedere di Santa Luzia, c'era una pergola spessa di buganvillea, appoggiati al parapetto guardavamo le luci del Tago, Maria do Carmo diceva Lisbon revisited di Alvaro de Campos, una poesia nella quale una persona è alla stessa finestra della sua infanzia, ma non è più la stessa persona e non è più la stessa finestra, perché il tempo cambia uomini e cose, cominciavamo a scendere verso il mio albergo, lei mi prendeva la mano e mi diceva: senti, chissà cosa siamo, chissà dove siamo, chissà perché ci siamo, senti, viviamo questa vita come se fosse un revés, per esempio stanotte, tu devi pensare che sei me e che stai stringendo te fra le tue braccia, io penso di essere te che sto stringendo me fra le mie braccia.

(Antonio Tabucchi, Il gioco del rovescio.)

mercoledì 24 agosto 2011

Tristezza sommessa.

Dormivi. Ti sveglio.
Il gran mattino reca l'illusione di un inizio.
Avevi dimenticato Virgilio. Sono qui gli esametri.
Ti porto molte cose.
I quattro elementi dei greci: la terra, l'acqua, il fuoco, l'aria.
Un solo nome di donna.
L'amicizia della luna.
I chiari colori dell'atlante.
L'oblio, che purifica.
La memoria che sceglie e che riscrive.
L'abitudine che ci aiuta a sentirci immortali.
Il quadrante e le lancette che dividono l'inafferrabile tempo.
La fragranza del sandalo.
I dubbi che chiamiamo, non senza vanità, metafisica.
Il manico del bastone che la tua mano attende.
Il sapore dell'uva e del miele.

Jorge Luis Borges.

*

Tristezza a granuli, sommessa, intervallata da momenti statici e dilatati di puro e sano nulla.
L' attesa continua di un' altra attesa, la ripetizione infinita degli stessi concetti, l' elaborazione mal riuscita del lutto della mia vita precedente, un gigantesco, continuo cambio di programma (io detesto i cambi di programma), e poi ancora l' attesa, l' attesa delle vacanze quando tutti tornano al lavoro, l' attesa del ritorno che nasconde una nuova attesa ancor più lunga, l' attesa della sfida che nasconde una nuova attesa ancor più densa, la nebbia densa, che non c'è mai in questo perennemente soleggiato e ridente Sud del cazzo. Se avessi realmente qualcosa da dire, probabilmente scriverei il romanzo della mia vita. O una raccolta di racconti, o qualsiasi altra cosa teleologica. Il fatto è che la città, l' inutilità dei sentimenti che non vince la distanza, l' afa e tutto ciò che mi viene in faccia o contro durante questi mesi, durante questo tempo, incalcolabile in fondo, ché non so dire se son mesi o anni, o secoli o minuti, è impalpabile, inafferrabile, vuoto, vacuo, fatuo e quant' altro ci sia a nostra disposizione all' interno del dizionario della lingua italiana per descrivere la privazione e il non senso. Dunque, semplicemente, sono qualcuno che conosce la tecnica ma è privo di qualsivoglia contenuto. Le idee dovrebbero essere cullate per lo meno da un pò di brezza, invece qui continua, giorno e notte, ad esserci sempre la stessa, identica, opprimente aria stanca. Aria senz' aria, ché quando inspiri tiri giù soltanto fuoco che non ti uccide ma ti brucia, ti brucia dentro, polverizzando ogni cosa, ogni cosa nel suo incendio costante. E poi via ad ascoltate i clacson ininterrotti e prolungati, i passi stanchi e grevi, i sospiri e le invettive, a sentirsi addosso il sudiciume di un' estate mal vissuta e mal riuscita, costellata dalle continue, ingiuste vittorie del disamore che vince, vince sempre contro i buoni propositi e i sentimenti sinceri e disinteressati. Il veleno si annida in tutte le cose che tocco o ascolto, o assaggio, sotto la lingua l' amaro ha la sua dimora, e io continuo ad essere un ospite in questa casa, formalmente ben accolto, ma maledetto dall' interno. Penso, penso a quando avevo tanti di quei sogni che potevo riempirci le giornate, e forse è quello che ho fatto in assenza di altri modi per passare il tempo, riempire i giorni e le pagine con i miei sogni, fino a consumarli, a renderli privi di quel vigore con il quale si erano manifestati in me. Penso a quando l' amore poteva vincere tutto, come nelle favole e negli aforismi latini, e si fidava, l' amore, si fidava di se stesso, di me, e dell' universo intero. Penso a mio nonno, morto da dieci anni, perchè era l' unica persona con un pizzico di buon senso e di amore incondizionato verso di me. Penso a chi e a cosa è rimasto, e allo schifo che mi sale in gola quando mi guardo attorno. Penso al 26 Dicembre di vent' anni fa. E all' oblio, dimensione unica e totale che mi appartiene. Penso alla mia professione futura, con gioia e desiderio di essere. Mi guardo intorno e non c'è niente. I treni non sono sui binari. Non ci sono. L' umidità ha coperto le colline.

sabato 20 agosto 2011

Lista dei desideri!

Benchè qualcuno sostenga il contrario, io so benissimo che cosa desidero fare nei miei probabili anni futuri.
So che voglio insegnare, sopra tutte le cose.
So che voglio scrivere.
So che voglio vivere in una casa diversa da questa, piccola, sporca, disordinata e con le pareti coloratissime.
So che voglio accanto un uomo che mi comprenda, prima di tutto.
So che non voglio avere figli, nè a 30, nè a 40 anni, mai.
So che voglio continuare la mia infinita, inutile ricerca.
E poi so che voglio stare il più lontano possibile da loro.
E questo è quanto.
Si aspetta per aspettare, non si finisce mai di attendere.
Spero solo di non morire durante l' attesa, o prima che s' intraveda una delle mete.
Sarebbe un vero peccato.

giovedì 28 luglio 2011

Tristano muore .

Tristano muore , e con lui muore anche un po’ di me . Questo sta a significare che , probabilmente , la mia , come quella del mio cane , è un' otite psicosomatica , e che c'è ancora tanto da perdere , prima di giungere all' osso , prima di toccare il fondo , quello vero , non quello che , a sorpresa , sotto di sé , nasconde l' ennesimo baratro . L' orecchio sinistro fa male perché c'è qualcosa nell' aria di questo paese che non si vuole proprio ascoltare, un riff interrotto dalla notte che non si riesce a sopportare . Ecco perché detesto tanto la luce del sole . Mi sembra di emanare un cattivo odore e di essere meno attraente ( per quanto una come me possa esserlo ) da quando ho rimesso piede in questa casa . Considerato che queste sono le righe che interrompono mesi e mesi di silenzio , beh , considerato questo , niente , non volevo dire proprio nient’ altro , soltanto , considerato che queste sono le righe che interrompono mesi e mesi di silenzio , e basta .
Tristano muore , e con lui muoiono anche tutte le mie fantasie . Ed è questo il destino di noi precoci , quello di morire giovani e di non sognare più troppo presto . Considerato che c’è chi sogna ancora alla soglia dei cent’ anni , nulla , considerato e basta .
La dimensione vellutata nella quale avevo messo radici si è lacerata come una tela di Fontana , con una fondamentale differenza di eleganza . Non ho mai saputo perdere con eleganza , probabilmente perché non ho mai imparato a farlo . Dunque , da un po’ di tempo a questa parte , invece di cimentrami in deliranti bla bla bla inconcludenti e pedanti , dalle dimensioni spropositate che nessuno mai prendeva in considerazione , ho deciso di agire , e di metter mano alla mia vita , demolendola completamente , come una costruzione Lego ( che magari è anche riuscita bene , ma ci ha stancato , e vogliamo ricominciare a costruire da zero ) e tentando di incastrare diversamente i pezzi , per poi alzarmi dal pavimento , allontanarmi qualche metro , e ammirare con occhi estranei i risultati della mia fatica . Questo per me significa vivere , questo significa dire la verità .
Investire le mie ultime energie in questa rivoluzione un po’ silente ( vecchie malsane abitudini ) un po’ violenta è un rischio , che ho valutato e rivalutato forse anche troppo a lungo . Sono un’ inguaribile Leuconoe , e al di là dell’ assonanza leggera , mi lega al nome di questa donna stolta la testardaggine di voler sempre e comunque prevedere gli effetti a lungo e breve termine che nel futuro avranno le nostre azioni . Non è possibile ! Come non è possibile non avere rimorsi e rimpianti . Ma chi mi conosce davvero ( e cioè nessuno ) sa perfettamente che ho sempre preferito i primi ai secondi .
Chi mi dice “hai solo vent’ anni”  è un imbecille , qualunque siano le sue intenzioni . Vent’ anni non li ho mai avuti e non li avrò mai .



" La vita non è in ordine alfabetico come credete voi. Appare... un po' qua e un po' là, come meglio crede, sono briciole, il problema è raccoglierle dopo, è un mucchietto di sabbia, e qual è il granello che sostiene l'altro? A volte quello che sta sul cocuzzolo e sembra sorretto da tutto il mucchietto, è proprio lui che tiene insieme tutti gli altri, perché quel mucchietto non ubbidisce alle leggi della fisica, togli il granello che credevi non sorreggesse niente e crolla tutto, la sabbia scivola, si appiattisce e non ti resta altro che farci ghirigori col dito, degli andirivieni, sentieri che non portano da nessuna parte, e dai e dai, stai lì a tracciare andirivieni, ma dove sarà quel benedetto granello che teneva tutto insieme... e poi un giorno il dito si ferma da sé, non ce la fa più a fare ghirigori, sulla sabbia c'è un tracciato strano, un disegno senza logica e senza costrutto, e ti viene un sospetto, che il senso di tutta quella roba lì erano i ghirigori. "
Antonio Tabucchi , Tristano Muore .

venerdì 8 luglio 2011

.



Mi hanno cucito l’ anima , mi hanno rattoppato il cuore .

A volte è giusto che certi lembi rimangano distanti . Che si lacerino senza ritrovarsi mai .

Sentire la punta dell’ ago che penetra nella carne e conosce il tuo sangue meglio di te rende sterili .

Non si può ritrovare l’ ordine quando si è amato il caos .

Non si può amare il sole quando si è ritrovata la notte .

E in mezzo alla foschia , in mezzo alla neve che non è mai caduta sopra queste piazze , sopra questi marciapiedi di fango e sterco , tu sei andata via , premendo l’ unghia contro il polso .

Di lì tracciasti una scia , un graffio profondo , rossastro . 

Quella la linea di confine .

Invalicabile .

Insuperabile .

Indistruttibile .

(Inguaribile , tra debita parentesi , a debita distanza , ché la sofferenza è biunivoca , forse , e unilaterale , e vivida .)

Pescherò in queste memorie turpi graffiate dal segno dell’ oscurità colanti stracci della tua camicia da notte .

La roboante sicurezza di aver calpestato la stessa viscida strada , con la stessa viscida sensazione di sporco .
Tutto è quanto ci unisce e ci divide .

Benedirai le rughe del tuo viso , se Dio ti darà giorni a sufficienza per vederle germogliare e moltiplicarsi sul tuo viso .

Implorerai la vecchiaia sfigurante , sfuggirai ai pensieri negligenti .

Se ho qualcosa anche di te , o sono soltanto , in tutto e per tutto , uguale a lui .

La coerenza è un’ eleganza , non una virtù .

Soppiantata , superata , mai ritrovata .

Come non mi avessi mai generata .

Sulla tua urna piangeranno i figli tuoi , tua madre e tuo padre , chi ti ha amata nel corpo , coloro che ancora possono chiamarsi amici .

Eppure non avrai eredità di affetti .

Non avrai eredità .

Perché tutto ciò che hai voluto in quell’ attimo , sono stata io .

Se hai emesso timidi gemiti , o hai goduto strillando , sono stata io il tuo piacere .

Se hai pianto sul debito contratto , hai pianto per me .

Se hai una cicatrice che ti sfigura il ventre , sono io che ti ho sfigurata .

Gioia , dolore e miseria mi hanno fatta così .

Di quello sei fatta tu .

Non vedrò mai il tuo viso , non pronuncerò mai le sillabe che compongono il tuo nome , eppure nessuno ti amerà come ti amo io .

Non avrai eredità di affetti .

Non avrai eredità .

Piangeranno perché avranno perso la madre , la figlia , l’ amante , l’ amica .

Quando morirai .

Io piango da sempre perché ho perso la vita .

Perché ho perso te .

Prima ancora di averti .

E il giorno in cui il battito ti mancherà che sia mio il tuo ultimo pensiero .

Io non lo saprò , né muterebbe il mio dolore .

Ti piango viva , ti piango morta .

Ti piango da sempre .

È la prima cosa che ho fatto , quando mi hai messa al mondo .

E’ la sola cosa che ho fatto , da quel giorno in poi .

E il giorno in cui il battito ti mancherà che sia mio il tuo ultimo pensiero .

Che sia suo .

Che sia nostro .

Buon sangue non mente .

Mi hanno detto che l’importante è sapere chi si è, non da dove si viene:
“Sono quello che sono oggi, e non c’è niente nel mio sangue e nelle mie radici che possa in qualche modo aiutare a comprendermi meglio, o a chiarirmi con me stesso.”
Credo che non ci sia niente di più sbagliato.
Puoi amare, rispettare o rinnegare quello che ti ha generato, la materia di cui sei fatto, le cellule che ti compongono, ma non puoi non conoscerle. Potrei star qui a formulare centinaia di poetiche metafore necessarie per trasmettere meglio il messaggio, ma non mi va.
Soltanto adesso ho capito perché detesto così tanto il giorno di Santo Stefano. Quale insofferenza, qualche grigia malinconia mi prende il cuore e lo stomaco quel giorno. Eppure non è un giorno peggiore, né migliore degli altri. Certamente sapere che sei scappata non mi cambierà la vita, né mi stupisce. So che cosa significa voler fuggire da un impiccio, da una situazione scomoda. Il nodo alla gola è il frutto di una perdita di controllo. Quando si porta una maschera e si ha una faccia, non ci si può concedere un imperdonabile errore. Lo so. Tutto quello che avevi costruito, tutto quello che avevi sempre detenuto, quel potere, quella fortezza di carta velina in cui risiedevi, non aveva più motivo di essere, di restarsene in piedi. Un soffio di vento rischiava di portarsela via; un seme piantato male, nella stagione sbagliata, nell’orto più fertile, rischiava, mettendo radici, di sollevare la tua casa e rovesciarla in terra, lasciandone delle evitabili rovine. Lo stupore e la pietà non hanno spazio in questo gioco di copertura, basti il buon senso a rinfrescare le coscienze.
Quello che invece mi ossessiona è il pensiero che ci siano stati prima di me altri due ospiti del tuo grembo. È una gelosia quasi ridicola, considerando che probabilmente io e i miei fratellastri non abbiamo neanche un padre in comune, e che il destino di orfana ha toccato solo me, privandomi del tuo nome, oltre che del tuo affetto.


Il cielo ci ha reso orfani
complici afe torbide
nello spazio aperto dei desideri
mancano e stancano
fughe in festa
e freddo in blu.

Per le stelle non era foschia
dritta la via
lontano da me.

Con un nome svenduto
e sventrato
il taglio impaziente
brucia di più.

Nella borsa errori evitabili
smembrano il mondo
e vanno con te.

(Pescherò in queste memorie turpi graffiate dal segno dell’ oscurità colanti stracci della tua camicia da notte.)

giovedì 23 giugno 2011

Fernandinho e Ophelinha .

Il titolo del mio blog cita il primo verso di una poesia a me molto cara, forse la più cara che ho: Autopsicografia di Fernando Pessoa. Lo stesso che viene affettuosamente chiamato Fernandinho giusto un rigo più sotto, in quella che dovrebbe essere, come suggerisce Blogspot, la "descrizione del blog", dalla sua amata Ophélia Queiroz, che dà il nome all' URL di questo blog. Nonostante sia piuttosto blasfemo e suoni anche piuttosto male questo miscuglio indistinto di tecnologia e letteratura, era mio dovere chiarire le idee a questo inesistente pubblico virtuale.

Autopsicografia.

O poeta é um fingidor.
Finge tão completamente
Que chega a fingir que é dor
A dor que deveras sente.

E os que lêem o que escreve,
Na dor lida sentem bem,
Não as duas que ele teve,
Mas só a que eles não têm.

E assim nas calhas de roda
Gira, a entreter a razão,
Esse comboio de corda
Que se chama coração.


[Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.

E quanti leggono ciò che scrive,
nel dolore letto sentono proprio
non i due che egli ha provato,
ma solo quello che essi non hanno.

E così sui binari in tondo
gira, illudendo la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore.
]

Quest' uomo, questo poeta, che non era UN uomo, ma MOLTI uomini, e che non era UN poeta, ma MOLTI poeti, non ha mai saputo chi fosse, pur essendo tutto e anche di più di ciò che era.
Ha amato, è stato amato, non per UNA vita, ma per MOLTE vite, dalla sua Ophélinha, che sovente lamentava in alcune epistole pubblicate postume la mancanza e la lontananza di Fernando.
Un giorno, però, Alberto Caeiro, che non era Pessoa, ma lo era ugualmente, mostrò poco gradimento nei confronti della loro relazione. E Fernando lo seguì, piantando in asso la suddetta giovane, con più o meno queste parole:

"Hai più di mille ragioni -milioni di ragioni- per essere offesa, irritata, offesa con me. Ma la colpa non è stata mia; è stata di quel Destino che condanna il mio cervello, non direi definitivamente, ma, per lo meno, a uno stato che necessita di un' attenta cura, che non so se potrò avere."

Centrale, decisivo per il distacco (che dopo nove anni riavvicinò i due, sino poi alla morte, poco successiva, del poeta) fu la dimensione assurda ed estranea e quella meramente umana nella quale viveva Fernando Pessoa. Egli diceva che "esigere da me i sentimenti, sebbene degnissimi, di un uomo volgare e banale, è come chiedermi di avere occhi azzurri e capelli biondi". Dunque era concentratissimo nella sua dolorosissima ricerca di un senso profondo che in realtà NON C'E', e non ammetteva che ci fosse troppo spazio per le cose contingenti, quotidiane, e caduche. La loro presenza sullo sfondo, però, si faceva sentire, salutava da lontano con costanza, sperando, sapendo, che prima o poi sarebbe stata vista e presa nella giusta considerazione. Ma Pessoa insisteva, d' altra parte se avesse capito davvero che dietro quel negozio di Tabaccheria c'erano soltanto le sue chiacchiere vanesie, si sarebbe suicidato prima di morire di cirrosi epatica. Il che non so quanto avrebbe cambiato le cose. Certo alla Letteratura le avrebbe cambiate: Fernando infatti non avrebbe avuto il tempo di partorire quei capolavori che sono i suoi versi e il "Livro do desassossego".
Insopportabile seppur appetitosa, quindi, per quella mente, una missiva contenente tali parole:

"Quanto vorrei vivere con te! Essere tua! Quando potrà succedere? Vado a letto, amore mio, è già mezzanotte e mezza, e tu, bimbo mio, sei già a nanna? Sognami ma non pensare alle mie mutandine rosa!"

Ma a diciannove anni cos' altro avrebbe potuto scrivere la ragazzina all' avvenente compagno?
Tra un verso e l'altro, tutti si aspetterebbero che Pessoa si dedicasse ai suoi ferormoni. In effetti è stato così, fin quando lo stridente contrasto tra poesia e vita non ha aperto una voragine nel cuore del poeta, facendo deragliare il famoso trenino a corda. L' irrealtà è stata sovrana della sua vita, con tutto ciò che ne deriva. La NON identità delle MOLTEPLICI identità inghiottì, in questo modo, anima e corpo dell' autore, facendogli perdere di vista la verità che sta nella convinzione di essere qualcuno, ma di essere uno, e di conoscersi. Incapace di provare amore se non fingendo, incapace di capire in cosa consistesse la propria menzogna, poichè al di sotto del suo velo c'era una creatura disumana, quasi mostruosa, vorace e ingestibile.
Soltanto una cosa seppe di sè, prima non sapere nient' altro.
Seppe che era solo.

"Con una tale mancanza di gente coesistibile come c'è oggi, cosa può fare un uomo di sensibilità, se non inventare i suoi amici, o quanto meno, i suoi compagni di spirito?"

Ritorno alle origini .

Con l' apertura di questo stupido blog ritorno alle origini. Ritorno alle confessioni in forma ermetica, ritorno alla mia sensiblità travolgente, ritorno alle origini, insomma, anche se l'ho già detto, e l' ho anche anticipato, nel titolo di questo mio primo intervento.
Ricordo, con un sorriso a tratti malinconico a tratti sereno e distante, quel desiderio irrefrenabile di scrivere riguardo ogni evento apparentemente banale e trascurabile che mi prendeva nei pomeriggi d' estate di 'tanti' anni fa. Ricordo la forza che avevo nel farlo, nel saperci ancora credere, mettendo via ogni altro problema, ogni altra difficoltà. Pur riconoscendo il ticchettìo che preannunciava l' esplosione dietro la porta io continuavo a graffiare la vita nel tentativo vano di afferrarla. Ammetto di averle fatto versare del sangue: poche gocce, certo, ma che soddisfazione per me.
Ed è così che ho vissuto la mia pre-adolescenza e la mia adolescenza: non vivendo, ma sognando. Immaginando, scavando a fondo nelle insignificanze per cavarci quello (e anche di più) che non potevo toccare con mano, vivere sulla pelle.
Non ho mai avuto un gruppo di amici, non ho mai bevuto una birra con l' intento di ubriacarmi (non l'ho mai bevuta anche senza intento), non ho mai fatto tardi la sera, non ho mai visitato casa di nessuno, non ho mai dormito in nessun altro luogo se non nel mio letto, non ho mai amato (oddio, magari questa è da ritrattare, ma ora non ne ho voglia).
Ma sopratutto non ho mai costretto nessuno a lasciar perdere la propria vita per starmi dietro, per tendermi una mano. E devo dire di essere perfettamente riuscita nel tentativo: nessuno è mai stato disposto a stare con me, piuttosto che con qualcun altro, a meno che non fossi capace di dargli qualcosa in cambio.
Nessuno ha odiato il sabato sera quanto me, nessuno ha gioito così tanto nel sapere di non esser figlia dei propri genitori quanto me. Certo, magra consolazione anche questa. Ma in tempi difficili ci si aggrappa davvero a tutto.
Vorrei, a questo punto, interrompere la trafila di lagne e autocommiserazioni per giungere al nocciolo della questione, e cioè al motivo per cui riapro un blog, con la promessa di mantenerlo vivo il più a lungo possibile.
C'è un momento, nella vita di ognuno di noi, che non è per forza uno, ma può ripetersi nel tempo ad intervalli più o meno regolari, in cui si sente l' estremo bisogno di riprendere in mano e stringere al petto tutto ciò che gli altri, per crudeltà o per incompetenza, ci hanno sottratto. Un momento in cui ti guardi allo specchio, e non noti nient' altro che brandelli di abiti che si muovono in maniera goffa, indistinta. E' allora che ti accorgi di aver dato agli altri talmente tanto da non averne più per te stesso. E questa carestia di sostanza non ha provocato nient' altro che una perdita di me stessa. Che è grave, considerato che avevo molta stima di me, e curavo il mio talento, me lo coccolavo, e non lasciavo a nessuno il diritto di sputarci sopra o di metterci le mani. Dunque, non per la mera logica del do ut des, ma per un semplice istinto di sopravvivenza, notando che nulla di ciò che avevo regalato agli altri mi restituiva qualcosa in termini umani e non, ho deciso di invertire la rotta. Ho cambiato strada. Ho abbandonato la sosta al bivio. Ho intrapreso un nuovo viaggio.
Certo che sono piena di rimpianti. Certo che sono piena di rimorsi. Certo che sono vuota, come un secchio di plastica quando hai terminato di lavare il pavimento. Certo che sono dolorante, sanguinante. Certo.
Ma sono anche di nuovo io. Con tutto ciò che questo ha sempre comportato, e sempre comporterà. Il tempo perduto non si recupera, il male che si è fatto non si ripara, quello che si è ricevuto nemmeno. Tutto ciò che mi è stato preso, dato, non scompare. Non si cancella come una foto dall' hard disk.
Però si può scegliere di cambiare. O almeno provarci.
Per un atto di coerenza, di clemenza, verso se stessi e verso chi non ha mai potuto capire, e non per questo merita menzogna. L' ignoranza, spesso, è una virtù, non una colpa.
Io però con l' ignoranza ho sempre giocato sporco, ed era ora di finirla.
Perchè? Insofferenza connaturata. Chiedete alle mie cellule.