Vettriano

Vettriano

giovedì 19 dicembre 2013

Dell' Assenza e della Presenza.

E dunque nulla, ho pubblicato questa raccolta di poesie online, dal titolo "Dell' assenza e della presenza".
Qui, sul blog della casa editrice Matisklo troverete un articolo introduttivo:

http://matiskloedizioni.wordpress.com/2013/12/19/in-libreria-dellassenza-e-della-presenza-di-eleonora-rimolo/

E qui, sul sito della casa editrice Matisklo, il libro e la sua anteprima gratuita.
Ricordo che il libro è disponibile anche presso tutti gli store online (quali Amazon, Ibs, etc.)

http://www.matiskloedizioni.com/dellassenzaedellapresenza/index.html

Au Revoir.

martedì 17 dicembre 2013

il Nulla

L' impossibilità (o l'estrema difficoltà della sua realizzazione) insita nella parola 'utopia' avrebbe dovuto metterci in guardia dalle nostre illusioni. Tuttavia esiste un' età della vita nella quale pare sia passaggio obbligato sognare, credere, aspirare, tendere: l' età dello Streben non dura per sempre, a mio parere, ma solamente una manciata di anni, una decina, una quindicina nei sognatori più accaniti. Poi la vita risponde, a muso duro, e ti prende per la testa e ti porta dritto verso il muro più incrollabile, dove ti spacchi la fronte, una, due volte, finché le utopie si dissolvono, si disintegrano, e diventano schegge pericolosissime, che nel peggiore dei casi si conficcano nel cervello e ti pungono i pensieri per tutto il resto della vita.

Noi siamo sul confine di questa disillusione che chiamano passaggio all' età adulta, e ce ne restiamo sulla soglia, senza entrarvi, perché per fortuna non sembriamo esserne obbligati più come un tempo dalle norme e dalle scadenze che l' uomo aveva creato per autoregolarsi in modo artificiale.

Noi siamo nel ciclone delle delusioni, noi siamo entrati nel mondo reale, dove ogni cosa non può essere come la pensiamo, perché non siamo capaci in quanto essere imperfetti di creare il migliore dei mondi possibili, ma tutto al più ci è concesso vivere nel mondo che ci tocca.

E allora che fare, se le nostre fantasie, le nostre aspirazioni, cozzano contro una realtà che non sembra affatto rispondere ad esse? Non possiamo cogliere la verità assoluta dal momento che non esistono le strade migliori e quelle peggiori: non è come credevamo da bambini, non esistono poi confini così netti tra il bene e il male ed il giusto e il sbagliato; molte volte il fascino dell' oltre limite ci cattura, ci intrappola, e poi però ci frega, lasciandoci soli con le nostre mille domande alle quali mai saremo in grado di rispondere, perché la collettività non è un insieme di immagini singole uguali a se stesse che formano la medesima unica immagine ingigantita, la collettività è l' effetto ottico di un insieme molteplice e tremendamente, atrocemente individuale e soggettivo. E una volta che questo viene appurato, una volta che si sfalda la prospettiva comoda del “tanto questo è sbagliato e questo no, quindi questo devo farlo e quest' altro no”, restiamo noi soli e lo specchio del nostro Io, al quale cominciamo, impauriti, a chiedere: cos'è che vuoi? Cos'è che per te val la pena? Cosa per te è il bene e cosa è il male?

Ma chi è che risponde davvero? Un riflesso, un' ombra di noi stessi, imbevuta delle regole che, pur zoppicanti, ancora reggono le redini dell' ordine sociale e collettivo, o un essere pensante autonomo, spoglio da ogni pregiudizio e decontestualizzato dal circostante? E quale delle due voci sarebbe meglio ascoltare, e perché l' una dovrebbe essere meno attendibile dell' altra? In base, a loro volta, di quale giudizio morale? E ponendoci interrogativi del genere potremmo risalire all' infinito, eppure prima o poi ci troveremmo sulla punta estrema (che affaccia sull' abisso) di tutti i nostri dubbi e le nostre incertezze, ossia sull' impossibile determinazione del senso dell' esistenza umana e del suo creatore.

La serenità va dunque scelta, in quanto va scelta una strada da imboccare, per gradiente, per comodità, per qualunque motivo, mentre la rabbia è istinto, e in quanto tale la sua incontrollabilità ci sembra forza, ci sembra autorevolezza, ma è solo viltà, è solo abbandonarsi alla superficie increspata delle onde che si muovono a causa della brezza e non per loro consapevole scelta.

E allora d' improvviso, anche se hai poco più di vent' anni, ti coglie quella sensazione di stanchezza, di mollezza, di rassegnazione profonda, e quasi ti senti vecchio, più vecchio del mondo, perché hai sentito, tutto insieme, in una notte sola, il peso dell' insensatezza dell' universo, e ora sei così sazio di nulla e di incerto che ti viene solamente voglia di restare immobile e di guardare Dio mentre monta e smonta i giorni quasi fossero un gioco per bambini. E allora ti affacci al balcone, che è il diretto prolungamento di una casa dove fingiamo di essere al sicuro, che è il ponte che unisce il 'di fuori' con il 'di dentro', ma del 'di fuori' ti restituisce solamente una facciata d' insieme, che puoi guardare standotene in alto, lontano, senza parteciparvi in modo diretto. E respiri l' aria della sera, e bevi il tè caldo, e io passo dalla cucina e ti vedo; sei contorno di una figura che occupa esattamente il posto che dovrebbe, come in una fotografia perfettamente calibrata nei colori e nelle prospettive, come un dipinto surrealista e realista allo stesso tempo, anacronistico così come ti senti dentro, ed esco fuori anche io, e ti cingo le spalle, da dietro, e provo a stringerti per saperti vivo, per sentire il calore del tuo corpo, il tuo sangue sottopelle che fa ancora il suo dovere, e m' immergo nella tua apnea, e ti sussurro che c'è tempo, c'è ancora tempo, ma quanto più c'è tempo tanto più è tardi, la vita è un gioco del rovescio, è un patto segreto degli opposti che si beffano di noi, sempre, fino alla fine, fino a quando poi ci viene alla bocca assieme all' ultimo respiro una verità incontrovertibile, e cioè che l' amore è il solo contrario della morte.

Custodiscila, la tua diversità, coccola le tue nevrosi, educale come i tuoi figli prediletti, e non raccontarti bugie, mai, perché la differenza è l' unico bene che ci resta, perché il bene e il male che ci affliggono, che ci assalgono, che sembrano provenire da un demone esterno oscuro e che invece crescono, si nutrono e maturano solo in noi, fanno di noi quello che siamo, ed è proprio in quello che siamo che esiste la scelta, che esiste il soggetto, che l' Io si dipana, si dispiega, ci suggerisce quello di cui ha piacere e quello di cui ha orrore: loro sono la nostra prima verità.
Il tribunale astratto della coscienza non è altro che un teatro di partecipazioni all' etica di gruppo travestito male, poiché se per coscienza intendiamo il senso di inadeguatezza provato nell' andare contro la corrente della massa, allora no, non dobbiamo essere schiavi della nostra coscienza, non dobbiamo essere schiavi di nulla, neanche di noi stessi e della nostra stessa inattività. Perché sotto le spoglie del nostro voler restare immobili per un giorno o per sempre, si nasconde ben altro che una libera scelta arbitrale, catene molto più pesanti del senso comune ci tengono legati nelle prigioni dell' anima, e sono paure delle conseguenze delle nostre scelte, e sono timori di riuscire male, di sapersi star male, star peggio, e sono fantasmi che assillano la mente e le impediscono il sonno; ma l' alba ci insegna che ogni notte si esaurisce nel giro di poche ore, così come lo stesso giorno, d'altra parte, lascia subito spazio ad una nuova notte, e nell' alternarsi incessante delle quotidianità sta la chiave di tutto il castello al quale non crediamo di avere accesso, poiché ogni azione (e anche ogni inazione, a suo modo, perché non si annullano gli opposti neanche nell' immobilità) provoca reazioni a tratti positive, che paiono darci ragione, rafforzare le nostre tesi, renderci autorevoli agli occhi del 'di fuori', a tratti profondamente negative, che ci mettono di fronte ad una evidente inadeguatezza dello stare al mondo, poiché siamo tutti adeguati e tutti inadeguati allo stesso modo, poiché siamo tutti vivi per caso e moriremo tutti per caso, perché tutti siamo felici in un solo momento e soffriamo da cani il giorno dopo, o il giorno stesso, e ogni tentativo sciocco di tenere fermo il pendolo solamente da un lato ci porterà via tutte le poche forze che abbiamo in corpo.

Bisogna tuttavia sapersi fermare, perché è necessario anche questo: quelli che condannano l' immobilità fanno del qualunquismo e non sono connessi con la realtà atroce delle cose. Bisogna sapersi fermare, attendere, ingannare il tempo, sentirselo scorrere addosso come acqua fredda (ma non troppo). Perché la serenità passa attraverso l'inazione: sedersi senza avere l' affanno di fare cose che non rispondono alla nostra più intima volontà (ma alla volontà e al piacere altrui), senza dovercisi sentire responsabili se non si sceglie di esserlo. È nel silenzio più assoluto e più rombante del cielo notturno che emergeranno dal fondale sabbioso le prime stelle. È potendo ascoltarci, è potendo godere di un abbraccio tacendo, è nella scintilla della completezza di un momento nel quale sentiamo di non aver bisogno di nient' altro, è lì il germe della nostra felicità, è lì il feto del nostro Io, perché è lì che siamo noi, è dove noi siamo che siamo felici, è dove ci ritroveremo, a sera, dopo una giornata di chiasso e di gente inutile, nel calore della nostra dimora, che potremo essere sereni, lì è dove Io e mondo coincidono, dove soggetto e oggetto si ricostituiscono, si rianimano, tornano a stringere patti sinceri alla luce del sole, e pian piano ci escono dagli occhi, dalle labbra, dalle mani, per costruire, per lasciare tracce effimere (ma testimoni del nostro aver vissuto davvero) nel giorno che fugge del nostro passaggio inevitabile su questa terra.

domenica 15 dicembre 2013

14/12/13

La luna la vedo come se stessi piangendo, ma non sono le lacrime che non ho più a renderla così opaca, è solo il velo di umidità che condanna questa città alla sfumatura eterna.

La panchina della mia infanzia rubata mi restituisce brividi di ferro lungo la schiena, e mi viene da pensare che l' immutabilità stia sul fondo di tutte le progressioni.

Perché dopo vent' anni confondo ancora gli uteri e le mani, e se faccio male alle mie vorrei ferire quelle sue, e se cerco rifugio è perché mi sento ancora feto e già madre, e non so dove fuggire, perché di elemosina non ne chiedo più al cielo, agli altri, che prendono dalle mie tasche solamente quello che serve e poi vanno via sbattendo la porta. Non ho più nulla qui, in questa casa che non mi è mai appartenuta, ogni oggetto della mia stanza è una cosa di qualcun altro, non hanno più storia nemmeno questi libri, catalogati sistematicamente per sentirli miei, per averli dentro di me.

Risento le risate, le grida, i sospiri dei primi baci in questa strada illuminata dall' ipocrisia del Natale, e per quanto un macigno spinga nel mio stomaco chiedendomi di uscire, io non gli concedo più udienza, e mi guardo intorno per cercare il sale che mi manca, io voglio piangere, fatemi piangere, vi prego, vi imploro.

Si avvicina pericolosamente un altro diciotto dicembre, utilizzo tutte le mie forze per guardare soltanto avanti a me, ce l'ho, ho il controllo dei muscoli del mio collo, resto ferma a fissare la linea sbieca dell' orizzonte, non girarti, non farlo, non troverai nessuno ai tuoi fianchi, figurarsi dietro di te, non girarti, non è giusto, stringi i pugni e continua a camminare, avanti, avanti, sempre avanti anche quando le ginocchia si sbucciano tra i rovi della notte e lo stomaco si rifiuta di accogliere cibo, sempre avanti, avanti, portati dietro come il più grande tesoro che hai la tua capacità di amare, quella e solo quella ti resta, quella e per quella vivi, lei è il tuo vessillo, il senso, semina amore, semina amore, e raccogline pure tempesta, ma semina, semina amore finché te ne resta in corpo.

...Ma il mio sogno si nutre col niente, eppure quel che sogno non è nulla di diverso dal calore di una casa modesta, dove posso ritrovarmi a sera con chi sente per me affetto e vuole stare accanto.

Non so in che mondo sono finita, in quale universo sono capitata, per caso, per puro incidente, ma sono ventidue anni che tutto questo non mi piace affatto.

lunedì 9 dicembre 2013

09/12/13

"Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero di esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l'altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri."
▪ Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso.


Oggi vorrei poter dire, questo è il giorno della mia resurrezione, e per resurrezione intendo una specie di elevarsi al di sopra del resto, come scrollarsi di dosso lo strato di polvere consistente che abbiamo accumulato su di noi, colpevoli di non aver saputo fare pulizia da prima, e con queste vesti superiori vorrei poterti dire, si riparte da qui, senza che prima ci sia stato mai nulla, una vasta distesa di bianco che puo' essere un' alba, un tramonto, o una nebbia assoluta e perenne che non cela niente dietro di sé. Vorrei che fosse possibile perché di certo tutti i nostri giorni meritano la purezza che ci hanno sottratto troppo in fretta, avevamo tra le mani un frutto così maturo e sano e ce lo hanno portato via, tra le dita sono rimaste gocce di succo che poi è andato a male, e a sfamarci non è rimasto niente, se non spine di rose mai sbocciate, che rose poi neanche erano, ma foglie morte travestite da fiori. Invece non posso, non puoi, ci guardiamo rassegnati, stanchi, colpevoli, e senza soffrire ancora ce lo diciamo, non posso, non puoi, io sono questo, tu sei questa qui, e di miserie e di errori e di bruttezze ne abbiamo pur fatte e ancora di più subite, e ce le portiamo addosso come una crosta impossibile da rimuovere, sfrega pure quanto ti pare, niente di quello che è il nostro passato andrà mai via, e ci sono ore come queste, dove tutto sembra soffrire con noi, in cui uno specchio qualunque mi restituisce un' immagine insana, dove questa eredità di disaffezioni e di tormenti punge e pesa; punte di spillo e macigni insostenibili mi spezzano tutti i respiri, e l' ondeggiare del sogno nel reale rende la notte e la veglia insopportabili. Di tutte le porte che ti ho spalancato, questa proprio non si apre più, ed è un bene che non lo faccia, non cercare di entrarvi, amore mio, resta sempre sulla soglia, ti sussurro, dunque ti spingo via e ti tiro per un braccio, e nella corsa affannosa verso il più prossimo futuro mi imbatto nei tuoi demoni, stavolta, dopo essere riuscito a sottrarti ai miei, ma sono solo voci di fantasma, che svelano nuove menzogne, incredibili tradimenti, lacrime incandescenti, e allora corriamo ancora, contro la tempesta, come sarebbe bella una pagina nuova di un libro altro, ma nel grande vocabolario del mondo la parola della quale ci spetta scrivere il lemma è una soltanto, e sta in mezzo al rumore indistinto del chiacchiericcio inutile di ciò che si è stati.

L' inverno è la nostra stanchezza, lontane le nostre terre irraggiungibili e amate ci osservano mutare, ogni ora ci guardano soccombere, e ci sovrastano: come fossimo sulla sommità del nostro monte sterminatore in basso contempliamo religiosamente le città fumanti dopo l' incendio universale; fotografie, versi, gesti ridicoli, ossessioni, manie, tentativi, ridicolezze, pochezze, umiliazioni, coltelli tesi che amavamo conficcarci da soli nel ventre (e di cui restano i segni ancora sui palmi delle mie mani, perché mi accorgo oggi più di ieri di quanto il mio ventre sia troppo magro, troppo malato, per poter contenere cose, per poter sedurre, per poter essere vivo, e apprezzo che muoia, e io con lui, adesso, per sempre, forse), tutto brucia e il fumo che si leva dalle macerie informi arriva alle nostre narici col nome di giovinezza, e sul confine di questi anni io scivolo, e non vorrei mai tornarvi, oggi sono come qualcuno che viaggia dentro un vagone antico, e si vede divorare gli occhi da un paesaggio vuoto disegnato sul vetro del finestrino, sono quindi in treno, e ho al mio fianco tutte le valigie necessarie, e molti libri, e poca ma buona musica, qualche amuleto e parecchia folle speranza.
Se sto tornando a casa o sto fuggendo, questo non saprei dirtelo, ma se chiudo gli occhi mi vedo ancora indagare, scavare, aprire, voglio soltanto farmi male, o voglio entrarti fin nelle ossa, neanche questo so dirtelo, se vivo questa esistenza con il cipiglio di chi ha la cieca determinazione di spingersi oltre quel che tutti chiamano verità, o se tento di morirti tra le braccia, mistero occulto di questo mio inconscio ballerino, però stasera avrò fatto un altro po' di strada, questo è certo, mi sarò separata ancora di qualche altro passo da me stessa e quindi sarò già più vicina a me, a te, e il sonno arriverà, questa volta ne sono certa, e sarà un vagheggiare dolcissimo di dormirti accanto, sarà puntare il piede nella terra nera, e dire da qui non mi muovo se non vieni con me o resteremo qui per sempre, esposti al freddo selvaggio, sarà lavorare una vita intera per dimostrarti in un minuto soltanto quanto sia necessario e doveroso premere le mani sul pavimento per dare forza al tuo corpo di rialzarsi, e di rimettersi in cammino, è proprio e soltanto il fatto che non si arrivi da nessuna parte a doverci dare le energie adatte alla strada, il punto visibile in fondo è l' abisso, e puoi chiamarlo morte, e puoi chiamarlo amore, perché ognuno sceglie se morire o se amare, e non esistono terze vie, interpretazioni altre, nessuna sintesi tra tesi e antitesi, ognuno sceglie se morire o se amare, ed è esattamente a quella stazione che ci fermeremo, non ad una dopo, né a qualcuna prima: è precisamente a te che tendo, che miro, che lascio il tendine, che scocco, che arrivo, che vieni, se lo vuoi, se lo voglio.