Vettriano

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giovedì 23 giugno 2011

Fernandinho e Ophelinha .

Il titolo del mio blog cita il primo verso di una poesia a me molto cara, forse la più cara che ho: Autopsicografia di Fernando Pessoa. Lo stesso che viene affettuosamente chiamato Fernandinho giusto un rigo più sotto, in quella che dovrebbe essere, come suggerisce Blogspot, la "descrizione del blog", dalla sua amata Ophélia Queiroz, che dà il nome all' URL di questo blog. Nonostante sia piuttosto blasfemo e suoni anche piuttosto male questo miscuglio indistinto di tecnologia e letteratura, era mio dovere chiarire le idee a questo inesistente pubblico virtuale.

Autopsicografia.

O poeta é um fingidor.
Finge tão completamente
Que chega a fingir que é dor
A dor que deveras sente.

E os que lêem o que escreve,
Na dor lida sentem bem,
Não as duas que ele teve,
Mas só a que eles não têm.

E assim nas calhas de roda
Gira, a entreter a razão,
Esse comboio de corda
Que se chama coração.


[Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.

E quanti leggono ciò che scrive,
nel dolore letto sentono proprio
non i due che egli ha provato,
ma solo quello che essi non hanno.

E così sui binari in tondo
gira, illudendo la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore.
]

Quest' uomo, questo poeta, che non era UN uomo, ma MOLTI uomini, e che non era UN poeta, ma MOLTI poeti, non ha mai saputo chi fosse, pur essendo tutto e anche di più di ciò che era.
Ha amato, è stato amato, non per UNA vita, ma per MOLTE vite, dalla sua Ophélinha, che sovente lamentava in alcune epistole pubblicate postume la mancanza e la lontananza di Fernando.
Un giorno, però, Alberto Caeiro, che non era Pessoa, ma lo era ugualmente, mostrò poco gradimento nei confronti della loro relazione. E Fernando lo seguì, piantando in asso la suddetta giovane, con più o meno queste parole:

"Hai più di mille ragioni -milioni di ragioni- per essere offesa, irritata, offesa con me. Ma la colpa non è stata mia; è stata di quel Destino che condanna il mio cervello, non direi definitivamente, ma, per lo meno, a uno stato che necessita di un' attenta cura, che non so se potrò avere."

Centrale, decisivo per il distacco (che dopo nove anni riavvicinò i due, sino poi alla morte, poco successiva, del poeta) fu la dimensione assurda ed estranea e quella meramente umana nella quale viveva Fernando Pessoa. Egli diceva che "esigere da me i sentimenti, sebbene degnissimi, di un uomo volgare e banale, è come chiedermi di avere occhi azzurri e capelli biondi". Dunque era concentratissimo nella sua dolorosissima ricerca di un senso profondo che in realtà NON C'E', e non ammetteva che ci fosse troppo spazio per le cose contingenti, quotidiane, e caduche. La loro presenza sullo sfondo, però, si faceva sentire, salutava da lontano con costanza, sperando, sapendo, che prima o poi sarebbe stata vista e presa nella giusta considerazione. Ma Pessoa insisteva, d' altra parte se avesse capito davvero che dietro quel negozio di Tabaccheria c'erano soltanto le sue chiacchiere vanesie, si sarebbe suicidato prima di morire di cirrosi epatica. Il che non so quanto avrebbe cambiato le cose. Certo alla Letteratura le avrebbe cambiate: Fernando infatti non avrebbe avuto il tempo di partorire quei capolavori che sono i suoi versi e il "Livro do desassossego".
Insopportabile seppur appetitosa, quindi, per quella mente, una missiva contenente tali parole:

"Quanto vorrei vivere con te! Essere tua! Quando potrà succedere? Vado a letto, amore mio, è già mezzanotte e mezza, e tu, bimbo mio, sei già a nanna? Sognami ma non pensare alle mie mutandine rosa!"

Ma a diciannove anni cos' altro avrebbe potuto scrivere la ragazzina all' avvenente compagno?
Tra un verso e l'altro, tutti si aspetterebbero che Pessoa si dedicasse ai suoi ferormoni. In effetti è stato così, fin quando lo stridente contrasto tra poesia e vita non ha aperto una voragine nel cuore del poeta, facendo deragliare il famoso trenino a corda. L' irrealtà è stata sovrana della sua vita, con tutto ciò che ne deriva. La NON identità delle MOLTEPLICI identità inghiottì, in questo modo, anima e corpo dell' autore, facendogli perdere di vista la verità che sta nella convinzione di essere qualcuno, ma di essere uno, e di conoscersi. Incapace di provare amore se non fingendo, incapace di capire in cosa consistesse la propria menzogna, poichè al di sotto del suo velo c'era una creatura disumana, quasi mostruosa, vorace e ingestibile.
Soltanto una cosa seppe di sè, prima non sapere nient' altro.
Seppe che era solo.

"Con una tale mancanza di gente coesistibile come c'è oggi, cosa può fare un uomo di sensibilità, se non inventare i suoi amici, o quanto meno, i suoi compagni di spirito?"

Ritorno alle origini .

Con l' apertura di questo stupido blog ritorno alle origini. Ritorno alle confessioni in forma ermetica, ritorno alla mia sensiblità travolgente, ritorno alle origini, insomma, anche se l'ho già detto, e l' ho anche anticipato, nel titolo di questo mio primo intervento.
Ricordo, con un sorriso a tratti malinconico a tratti sereno e distante, quel desiderio irrefrenabile di scrivere riguardo ogni evento apparentemente banale e trascurabile che mi prendeva nei pomeriggi d' estate di 'tanti' anni fa. Ricordo la forza che avevo nel farlo, nel saperci ancora credere, mettendo via ogni altro problema, ogni altra difficoltà. Pur riconoscendo il ticchettìo che preannunciava l' esplosione dietro la porta io continuavo a graffiare la vita nel tentativo vano di afferrarla. Ammetto di averle fatto versare del sangue: poche gocce, certo, ma che soddisfazione per me.
Ed è così che ho vissuto la mia pre-adolescenza e la mia adolescenza: non vivendo, ma sognando. Immaginando, scavando a fondo nelle insignificanze per cavarci quello (e anche di più) che non potevo toccare con mano, vivere sulla pelle.
Non ho mai avuto un gruppo di amici, non ho mai bevuto una birra con l' intento di ubriacarmi (non l'ho mai bevuta anche senza intento), non ho mai fatto tardi la sera, non ho mai visitato casa di nessuno, non ho mai dormito in nessun altro luogo se non nel mio letto, non ho mai amato (oddio, magari questa è da ritrattare, ma ora non ne ho voglia).
Ma sopratutto non ho mai costretto nessuno a lasciar perdere la propria vita per starmi dietro, per tendermi una mano. E devo dire di essere perfettamente riuscita nel tentativo: nessuno è mai stato disposto a stare con me, piuttosto che con qualcun altro, a meno che non fossi capace di dargli qualcosa in cambio.
Nessuno ha odiato il sabato sera quanto me, nessuno ha gioito così tanto nel sapere di non esser figlia dei propri genitori quanto me. Certo, magra consolazione anche questa. Ma in tempi difficili ci si aggrappa davvero a tutto.
Vorrei, a questo punto, interrompere la trafila di lagne e autocommiserazioni per giungere al nocciolo della questione, e cioè al motivo per cui riapro un blog, con la promessa di mantenerlo vivo il più a lungo possibile.
C'è un momento, nella vita di ognuno di noi, che non è per forza uno, ma può ripetersi nel tempo ad intervalli più o meno regolari, in cui si sente l' estremo bisogno di riprendere in mano e stringere al petto tutto ciò che gli altri, per crudeltà o per incompetenza, ci hanno sottratto. Un momento in cui ti guardi allo specchio, e non noti nient' altro che brandelli di abiti che si muovono in maniera goffa, indistinta. E' allora che ti accorgi di aver dato agli altri talmente tanto da non averne più per te stesso. E questa carestia di sostanza non ha provocato nient' altro che una perdita di me stessa. Che è grave, considerato che avevo molta stima di me, e curavo il mio talento, me lo coccolavo, e non lasciavo a nessuno il diritto di sputarci sopra o di metterci le mani. Dunque, non per la mera logica del do ut des, ma per un semplice istinto di sopravvivenza, notando che nulla di ciò che avevo regalato agli altri mi restituiva qualcosa in termini umani e non, ho deciso di invertire la rotta. Ho cambiato strada. Ho abbandonato la sosta al bivio. Ho intrapreso un nuovo viaggio.
Certo che sono piena di rimpianti. Certo che sono piena di rimorsi. Certo che sono vuota, come un secchio di plastica quando hai terminato di lavare il pavimento. Certo che sono dolorante, sanguinante. Certo.
Ma sono anche di nuovo io. Con tutto ciò che questo ha sempre comportato, e sempre comporterà. Il tempo perduto non si recupera, il male che si è fatto non si ripara, quello che si è ricevuto nemmeno. Tutto ciò che mi è stato preso, dato, non scompare. Non si cancella come una foto dall' hard disk.
Però si può scegliere di cambiare. O almeno provarci.
Per un atto di coerenza, di clemenza, verso se stessi e verso chi non ha mai potuto capire, e non per questo merita menzogna. L' ignoranza, spesso, è una virtù, non una colpa.
Io però con l' ignoranza ho sempre giocato sporco, ed era ora di finirla.
Perchè? Insofferenza connaturata. Chiedete alle mie cellule.