“Quanto costa diventare muti in un paese (mondo) di sordi?”
Costa poco, molto poco, direi che è quasi una conseguenza naturale, un modo per salvarsi dalla follia o dal fallimento, dall' abdicazione, è l' autoconservazione che ci allontana dalla verità, ci manipola, ci porta verso lidi sconosciuti e disabitati che mai avremmo pensato di abitare. Uno di questi è il lido del silenzio e dell' indifferenza: ma forse crescere significa proprio questo, migliorare la propria capacità di ignorare le cose del mondo, uno strato spesso di abnegazione che ci spinge a guardare in faccia il brutto e a proseguire dritto, senza sconvolgimenti e senza moti dell' animo. Sento il rombo di un motore trapassarmi il timpano e scuotermi lo spirito in maniera spiacevole, ma non mi fermo, continuo a camminare, a falciare pezzi di strada, cogliendo con gli occhi la sporcizia di questo mio paese e non provandone più disgusto, ma soltanto indefinitezza, come se tutte le cose fossero lì per un motivo che non mi interessa più, che non ci interessa più: e tu apri la bocca e pronunci parole, e per me è come assenza di suono, anzi, non è come, è proprio così, è reale incapacità di ascoltare, poiché tu che mi stai di fronte non stai parlando, in effetti, stai creando soltanto un po' di inquinamento, ma è un piccolo contributo nell' immensità dello sporco e dell' inutile, e quindi neanche si nota.
Dopotutto cambiamo, siamo tutti cambiati. Chi non cambia, non è. Siamo tutti cambiati, tu mi hai cambiato, io ti ho cambiato. Carezzare il tuo viso mi ha cambiato, ti ha cambiato. Ferirti a morte mi ha cambiato, ti ha cambiato. Li vedi questi sorrisi da fotografia, da momento perfetto, beh, ora sono spenti, spariti: non sono più sugli stessi visi, sono volati altrove, li indossa qualcun altro, e a noi adesso tocca indossare qualcos' altro, non siamo più quelli che eravamo, cambiamo, siamo tutti cambiati.
Cerchiamo qualcosa per cui valga la pena, ma ci accorgiamo che niente vale la pena, e tutto è ogni cosa tranne che necessario, aneliamo alla perfezione perché siamo esseri imperfetti e incapaci di gestire una difficoltà, abbiamo la pancia piena di zucchero e l' amaro ci pare immeritato, e allora diamo immediatamente inizio all' epopea, al gran ritiro; tutti i ritorni vigliacchi ai nostri punti di partenza sono mostri tremanti e impauriti che dalle nostre stanzette umide puntano il dito contro il sangue che non abbiamo buttato e il sudore che non abbiamo prodotto per conquistare qualcosa che poteva essere veramente prezioso. Preservare il prezioso e il bello devono essere oggi doveri morali dell' uomo. Devono assumere un senso definito, IL senso. Altrimenti possiamo trascorrere tutta la vita sulle nostre mediocri scialuppe in mezzo al mare in tempesta nell' attesa spasmodica di morire annegati, perché è quello che vogliamo, in fondo, tutti. Morire. E non lasciare traccia, per evitare che pure la nostra ombra venga rincorsa dalle leggi della natura e dell' uomo. Vogliamo fuggire, e vogliamo farlo senza stile, perché l'eleganza è un dettaglio nella resa, figuriamoci nella battaglia, se battaglia si può chiamare il tentativo flebile di ottenere tutto senza fare assolutamente niente.
E allora si dice che è Nausea quella che ci sale in gola, e ci brucia come succo gastrico andato a male, si dice che è ricerca, si dice che fa bene, ma un tormento senza scampo e senza fine è un modo vile per ritirarsi dalle scene senza ammettere di essere vili, una viltà della viltà, e allora prendiamoci tutti per mano e andiamocene, domani è lontano e ieri lontanissimo, oggi non esiste, è tutto un limbo dove ci piace restare appollaiati a fingerci pensatori, e cari miei è così ovvio, perché agire costa, e le energie sono poche, soltanto i pazzi le disperdono tutte al vento senza esserne gelosi, e senza ragionare sul fatto che poi, senza energie, è impossibile vivere, e appena sostenibile sopravvivere. E quindi basta, basta lamentarsi di ogni cosa, la scuola che non funziona, l' amore che non esiste, i genitori che non sanno educare adeguatamente i loro figli, che non ci sanno educare solo perché non si comportano come noi ci aspettiamo che facciano, sempre perché siamo dominati da un egocentrismo di dimensioni spropositate, presi da noi stessi in maniera maniacale, animali feroci che avvertono la presenza dell' altro come un pericolo e aborriscono l'idea di dedicare tempo altrui, non ascoltiamo nessuno, non vogliamo davvero bene a nessuno, non ce ne frega assolutamente niente di nessuno se non di noi stessi, amare è attentare alla nostra libertà personale, di cui poi fondamentalmente non ce ne facciamo un beato cazzo se non la condividiamo, ma questo poi lo capiamo troppo tardi, e tutto sfuma, di nuovo, inafferrabile, lontano.
Con tali premesse mi chiedo dove crediamo di andare, come pensiamo di poter cambiare le cose, di poterle migliorare, mi chiedo cosa intendono oggi le persone che parlano di 'miglioramento', mi chiedo se sanno che la radice greco-italica del termine migliore, che è màl, significa nient' altro che 'forte, valente', mi chiedo come si possa concepire un miglioramento se le menti che ci lavorano sono tutt' altro che temprate, pronte al lavoro duro del giorno dopo giorno, coraggiose. Mi sembra che pure le parole ci stiano abbandonando, mi sembra che tutto stia per implodere, da un momento all' altro, e io voglio fuggire via da tutto questo con le mie parole, andarmene sull' isola delle etimologie, risalire così all' origine delle cose e ai suoi concetti primigeni, per stringerne il senso e sentirmi al sicuro.
Poi mi dico che scappare non è la soluzione. Chi vuole migliorare non scappa, perché è forte, valente. Perché ha lo spessore morale e la determinazione di stringere i denti, di attendere, di lavorare attraverso le minuzie accumulando faticosamente piccole vittorie quotidiane sentendosi poi sufficientemente appagato e sufficientemente non soddisfatto da riuscire ad andare avanti con altrettanta fame e altrettanta voglia di lottare senza arrendersi.
E io voglio provarci, a migliorare.
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