Vettriano

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giovedì 12 settembre 2013

cogito ergo sum.

A cinque anni e tre mesi ho scritto la mia prima, banale poesiola.
Pochi mesi prima mio padre mi aveva regalato un abbecedario, con delle figure colorate molto accattivanti. Se mi giro e guardo in alto alla mia sinistra, lo vedo ancora lì, sulla mensola, che mi fissa come sedici anni fa.
A cinque anni e nove mesi ho cominciato la scuola, entusiasta come se dovessi salire all' altare.
Lì ci hanno insegnato le prime parole, che in parte conoscevo già. Il mondo mi sembrava meravigliosamente bello, raccontato con le parole.
Ci passavo le ore, insieme alle parole. Così arrivarono i primi temini in classe. I riassuntini. Le descrizioni. I 'caro diario'.
Le maestre erano entusiaste ed io ero incuriosita dal mio universo interiore.
A sette anni mi comperarono un giornalino di Hercules, nel quale vi era una pagina dedicata all' alfabeto greco, con il quale invitavano i lettori bambini a scrivere il proprio nome. Imparai tutto l' alfabeto greco.
Nel frattempo mi apprestavo a terminare le scuole elementari, e a chiedere in regalo i primi libri.
Non ricordo quale fu il primo libro che ho letto. Probabilmente 'Il giardino dei Finzi-Contini', del quale non capii un beneamato nulla.
Quando giocavo, ad otto anni, sola nella mia stanza, mi immaginavo maestra: correggevo i miei stessi quaderni ed inventavo appelli per singole classi.
Il tempo libero, durante le scuole medie, lo dedicavo ad annaffiare me stessa come una piantina preziosa: non so cosa mi spingesse a leggere così tanto, ad ascoltare così tanta musica e a scrivere così tanto. Forse l' emarginazione alla quale fui sottoposta mio malgrado dai miei compagni di classe ha giocato un ruolo non indifferente. O forse no. Nel dubbio, vi ringrazio, tutti. Per ogni singola lacrima e per ogni invito mancato.
Spesso entravo in libreria e chiudevo gli occhi: il cuore mi dirigeva verso uno scaffale a caso e il fiuto mi portava le dita su una copertina e su un nome che non avevo mai sentito prima.
A quindici anni le mani afferrarono Fernando Pessoa.
A quattordici, nel frattempo, mi ero innamorata. Uno di quegli amori limpidi, senza filtri, ingenui e sinceri fino alla distruzione del sé. Naturalmente la Letteratura amplificò questo mio sentimento fino a rendere la mia vita invivibile. Così scrissi un romanzo di centosessantatrè pagine per liberarmene.
Il Liceo Classico mi ha profondamente delusa.
Non mi ha fornito gli strumenti per affrontare le difficoltà della vita, e neanche quelli per assorbire decentemente le nozioni che quotidianamente proponeva. Lo studio era solo un mio personalissimo piacere morale. Anche se pensavo a molte cose, il mio tracciato interiore in tacito accordo con la mia mente mi proponeva come ovvia soluzione l' insegnamento e le Lettere Classiche.
A sedici anni ho cominciato a studiare la Filosofia. La prima cosa che mi ha insegnato la professoressa, è a cosa serve la Filosofia. Così, per evitare equivoci. Per evitare che gli studenti se ne chiedessero l' utilità in seguito o, peggio, strumentalizzassero le conoscenze filosofiche per piegarle ai propri percorsi mentali deviati. La Filosofia serve a vivere, signori miei. Ma non a vivere con la testa fra le nuvole, perduti nella confusione (Seneca userebbe qui il termine 'turba') dei pensieri altrui, no. Tutt' altro. Tutto il contrario, proprio. La Filosofia, guarda un po', ti insegna ad avere una Weltanschauung, ossia una tua visione del mondo, un binario entro cui indirizzare la tua anima affinché il tuo braccio si muova bene nel labirinto complicato dell' esistenza. Insomma, la Filosofia ti dice: “Devi trovare una collocazione in un ordine generale dell' Universo!”
A diciotto anni ho letto Freud e Jung, e ho capito che la mente umana è capace di creare creature abominevoli, e di operare in funzione di esse. Inizialmente mi sono spaventata, ed ho cominciato ad osservare in modo maniacale me stessa, i miei atteggiamenti. Quando ho capito che le nevrosi si riconoscono, si impara a tenerle sotto controllo, e poi le si lascia lì, come un segno distintivo, una cosa tua che fa di te ciò che sei, allora mi sono sentita a posto.
A diciannove anni ho capito che se ti senti inferiore, sei irrimediabilmente attratto da chi è irrimediabilmente più inferiore di te: manipolando e apparendo grandi di fronte ad una persona piccola, pur essendo oggettivamente piccolissimi si finisce per credersi dei giganti. E l' Ego si nutre di menzogne pur di gonfiarsi. Soffre, soffre incredibilmente sentendosi costretto ad ammettere i propri limiti. Fugge, vilmente fugge, chiunque gli appaia un tantino migliore di sé.
Al contrario, chi ha un Ego già abbastanza solido, va in cerca di chi gli è pari o superiore, per il desiderio inconscio di essere umiliato, dominato, poiché è una vita che domina, e non ne può più.


A vent' anni non ho capito un cazzo.


A ventuno ho avuto la Nausea.

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