http://www.pensieroscomodo.org/index.php/attualita/75-sulla-presunta-utilita-delle-lingue-morte
(:
Fatevi un giro, ciao.
" E' così triste vivere quando si è infelici , non è così , Fernandinho ? Non vale la pena vivere . "
Vettriano
domenica 29 settembre 2013
ci sono molti modi.
Ci sono molti modi di
volere bene, disse, mentre poggiava la testa
sul suo petto, questo è un modo, e con le mani raccolse una sua
mano, tenendola al caldo, in una rete di dita, e questo è un altro
modo, e lo guardò, con aria impassibile, ma feroce. Io voglio bene
soprattutto ai tuoi silenzi, perché suonano una musica muta che
riesco inspiegabilmente a comprendere. Dalla conoscenza profonda del
buio viene la sicurezza presuntuosa di muoversi a tentoni, quante
volte ho sbattuto la testa, il braccio, una gamba contro di te,
mentre nell’ oscurità ti cercavo, quante volte, neanche lo sai. Ci
sono come vedi tutti questi modi, e perché tu tiri fuori il peggio
di me, che forse è anche il meglio, le chiese, non lo so, rispose,
forse perché la linea di confine tra il bello e il brutto è fin
troppo sottile quando non si usano le parole ma si usa il corpo, io
so che hai voluto punire qualcuno attraverso di me, e so anche chi, e
so anche perché, il tuo è un gioco evidente, ma è bello giocare
con te, siamo due infanzie perdute per sempre, e io sono una vittima
perfetta, a me quello che hai fatto è piaciuto, ho provato un
piacere quasi catartico, spiegati meglio, le disse, perché io non
riconosco il mostro che fai emergere, non saprei spiegartelo con
altre parole, in fondo non è neanche lecito che io ne parli, per noi
hanno parlato il modo in cui mi tenevi ferma per il collo, il modo in
cui mi tiravi per i capelli, la forza con cui mi hai posseduta, e non
è forse un male, non è forse una sconcezza priva di qualunque
merito che io ti abbia usato per tirarmi via la brutalità che sento
dentro, è stato come se avessi detto e fatto tutto quello che vorrei
dire e fare a lei, forse a mia madre, e forse anche a te, si, anche a
te, non credi che debba essere vietata una cosa simile, come può
esserci affetto in tutto questo, io non mi riconosco più.
Lei non rispose, ma
sorrise, semplicemente, e si strinse al suo petto ancora più forte,
come fosse una bambina impaurita al sicuro tra le braccia del suo
sconosciuto padre.
Vedi, ci sono cose nella
vita che non si possono spiegare, se codifichi tutto diventi un
imperdonabile assassino, l’ indecifrabile è sempre in agguato e
bisogna lasciarlo scorrere, vedi, ci sono delle convergenze di anime
che vanno, vengono, si trasformano, mutano, poi tornano all’ atto
originario, così, per ricordarci ogni tanto da dov’è che veniamo,
nel caso ce ne dimenticassimo, è nostro dovere che tutto scorra,
intatto, puro, nulla di ciò che è istinto è reale, ma neanche
menzogna, è un lasciare per un attimo le briglie del pensiero, dove
ci siamo invischiati un giorno lontano di tanti anni fa senza
volerlo, senza saperlo, io so tutto e niente di te, ho osservato da
lontano la tua storia, parlandoti della mia per non creare
imbarazzanti silenzi, ma era tutta una grossa farsa, le mie infinite
narrazioni erano una cornice fantoccio, nulla di ciò che ti ho
descritto è davvero importante quando ti guardo negli occhi, perché
è allora che mi ricordo il caos primordiale da cui tutti veniamo e
dove tutti torneremo, è come se mi spingessi, nuda, di fronte a uno
specchio, ricordandomi nello stesso tempo tutti i miei limiti e tutte
le mie dolcezze, e io ho terrore di questa cruda verità animale, e
vorrei fuggire, mi divincolo dalla tua stretta, ma pur fuggendo è
tardi, perché ciò che avrei dovuto vedere l’ho visto, e mi ha già
sconvolto.
E tutto è come agire nel
buio, sotto la nostra coscienza vi è uno strato di catrame, dentro
quello strato spesso io vado a conficcarmi come una scheggia, mi
spiace se ti creo fastidio, una specie di puntura lieve, si scusò
lei, non importa, disse lui, proprio niente importa, già, rispose
lei, proprio niente, non ho che un nulla in questo ventre, soltanto
il freddo e il vuoto che hai lasciato dopo un fuoco rigonfio, perché
così è la vita, si perde e si riacquista, amore dalle ceneri di un
amore precedente, ciclicità assordanti e noiose, nelle quali veniamo
catapultati più o meno consapevolmente, e quando accade qualcosa di
inatteso, quando qualcuno ci mescola le carte davanti agli occhi, e
noi abbiamo le mani legate, allora scatta il terrore, il terrore
della perdita, più che della perdita della persona della perdita del
controllo che avevamo su quella persona, una sorta di certezza
tiepida che riscaldava quanto basta le notti d’ inverno. Si, è
proprio questo sapere tutto ma non poter far nulla per evitarlo, l’
essere trascinati dall’ ovvietà della vita, che mi fa pulsare le
tempie, ammise lui, e allora è tutto come dovrebbe essere, rispose
lei sorridendo nell’ ombra, ogni volta che ti sei spinto dentro di
me stasera hai ricordato a te stesso quanta rabbia inespressa ti
brucia lo spirito, in ogni carezza mancata, in ogni bacio che mi hai
rifiutato, e così ogni volta che mi hai tenuto la testa, mentre ero
indifesa e girata di spalle, io e te non abbiamo fatto altro che
parlare, dirci le più atroci verità senza emettere che suoni
indistinti e soffocati, e io ti ho ascoltato, eccome se ti ho
ascoltato, il tuo battere contro il fondo per tentare una vita di
fuga dalla vita, non esiste nessuna via di fuga, il limite ultimo sta
in fondo all’ utero, è da lì che siamo venuti tutti fuori ed è
fino a lì che tutti possiamo ritornare. Sempre, come l’ onda
infranta sulla spiaggia che assorbe, ci dissolviamo sbattendo contro
i nostri terrori inconsci, indifesi fantasmi della nostra stessa
mente siamo, e siamo anche anime perse, e quando andiamo via da un
luogo ci sembra a maggior ragione di esserne prigionieri, è una cosa
che non capirò mai, le sussurrò all’ orecchio, forse le radici
non sono soltanto diramazioni alternative delle nostre vene, chi può
mai saperlo, è ovvio però che non abbiamo colpe, perché tutti
siamo immacolati e tutti siamo carnefici spietati, a nostro modo,
quello che fa la differenza, già, qualcosa che farà la differenza
dovrà pur esserci, e si fermò a pensare, lui lo capì perché lei
fece una lunga pausa di senso, e poi riprese a piè sospinto, forse
quello che cambia le cose, o almeno sembra che le cambi, almeno per
un paio d' ore, sono gli occhi, come ti dicevo prima in altri
termini, o meglio quello che nascondono: ci sono veli di pupille che
riesco facilmente ad alzare senza nemmeno farmi scoprire, e allora
vedo un mondo diverso, e mi ci tuffo, concedendoti una crudeltà, e
godendone.
Questo cosa vuol dire,
chiese interrogativo lui, non lo so, disse lei, non so nulla di
nulla, le parole le pensa qualcos’ altro al posto della mia mente,
forse sono gli umori a parlare per me, che ancora mi scorrono tra le
gambe, la marea lentamente si ritira dopo la piena del fiume, la mia
testa è un uovo svuotato adesso, dalla pancia mi salgono alla gola
incastri di sillabe, stai parlando col mio sesso, forse, e non con
me, adesso, io non voglio parlare con nessuno, affermò perentorio
lui, proprio con nessuno, neanche con me stesso, e non c’è bisogno
che tu lo faccia, lo rassicurò lei, perché a me è sufficiente
parlare con la tua ombra, e cosa diresti alla mia ombra, chiese, cosa
le direi, non lo so, forse esattamente quello che le sto dicendo,
conosci te stesso, ama chi ti ha messo al mondo, non creare sempre
barriere così spesse tra te e le persone, tra te e le cose, rischi
di restare isolato dalla realtà contingente, di guardarla sempre con
occhio esterno, troppo esterno, a volte è necessario sporcarsi le
mani, di fango, di lacrime, di miele, e a queste parole una lacrima
cadde dal soffitto sul suo volto, scivolò dalla guancia di lei sulla
spalla di lui, e morì tra le lenzuola umide, cadendovi
rovinosamente, così come cadde la notte, d' un colpo, fredda, come
uno sparo.
domenica 15 settembre 2013
Ciao, a presto.
Siamo rimasti sazi, siamo tronfi, con le nostre certezze incerte, con i nostri progetti mentali spettacolari, tutti questi periodi oscuri che ci tendono la mano e ci portano su un divano, ci facciamo l' amore con le nostre manie e con le nostre ossessioni, ma non siamo per questo in grado di maritarci con loro, restiamo sempre a un palmo di come sarebbe potuta andare, poiché è meglio l' alternativa e l' attesa ad infinitum che la decisione, meglio una tromba che suona a morte, che posticipa un arrivo, che una corsa senza fiato imboccando una strada, però poi il problema è che restiamo immobili in noi stessi, e non ci muoviamo più dalle nostre stanze: tutti, tutti quanti siamo sempre nello stesso luogo, in un tempo che è sempre lo stesso giorno, sempre la stessa ora; non ha importanza che il nostro braccio penzoli inerme o che cinga le spalle di qualche sconosciuto, siamo perfettamente soli alla stessa maniera, non capite che potete penetrare tutti i corpi dell' universo, e ricevere tutti i figli perduti del mondo nel vostro ventre, ma non accadrà mai niente se il cuore resta scollegato, se qualche filo ha interrotto la sua comunicazione con l' esterno, siete gelidi, frigidi, perduti e confusi, vi hanno tirato via senza che voi abbiate opposto resistenza dalla verità e dalla gioia più pura, e siete stati portati in un bordello pieno di miasmi, dove le voci si sovrappongono ai gemiti, e i rigurgiti si sovrappongono alle grida, ed io guardo tutta questa barocca esposizione di carni cercando le menti che non avete più. E sono triste, perché non ritorna stasera, l' infanzia di un sentimento celeste un po' sporco di vizio che desidero è compattato in quest' ultima lacrima che voglio spendere, prosciugarsi per il nulla diventando niente non deve più essere la mia priorità da oggi in poi.
E mi guardate tutti con quell' aria compassionevole, tutti a pensare che tanto sarebbe finita male, per una come me, prima o poi. In qualche modo che non so ci siamo tutti convinti che niente vale la pena, per nessuno, non è pensabile avere ancora delle energie da spendere per coltivare un rapporto affettivo sincero, gratuito, stiamo bene da soli, cani che siamo, con le nostre velleità artistiche mediocri e i nostri ragionamenti cervellotici e vanesi.
E stiamo tutti bene nella nostra sporcizia, nella nostra putrida ipocrisia, stiamo tutti bene quando si tratta di tornare agli uteri e di generare temporaneamente ibridi di uomini, ma poi è importante, anzi no, fondamentale, che ognuno se ne torni a casa propria, senza dire una parola, senza neanche osare avvicinarsi all' altro, tempia contro tempia, mano contro mano, spalla contro spalla. È una mescolanza che non piace, è una responsabilità, è una scelta, è una maledetta, tremenda scelta. Che non porta mai al risultato sperato, perché ci hanno cresciuto con la convinzione che quel che ci fa stare bene deve essere soltanto bene, e non bisogna far altro che fuggire dal male, qualunque esso sia. Solo che non ci hanno avvertito di un fatto importante, e cioè che il male ci insegue dappertutto, si annida in ogni cosa, il male è dentro di noi tanto quanto il bene, e ci segue nelle decisioni, nelle cose, ci aggancia e non ci lascia più, è sempre pronto a ricordarci quanto siamo poco riconoscenti alla vita, ed è un bene che da questo gioco di opposti poi nasca qualcos' altro, quel che non è un bene è che nessuno vuole più giocare così, ma arraffare a tentoni e senza neanche alzarsi dalla sedia soltanto il buono di ogni cosa, e poi metterselo in tasca, e girare la faccia dall' altra parte.
Una stanchezza collosa corrode ogni centimetro del mio spirito, ed ogni volta ricominciare è più difficile, armarsi è più complesso, resistere è più un atto di coraggio che di lealtà verso se stessi.
Potrei dirvi che la soluzione a tutto questo è amare, amare senza limiti e senza misure, ma non mi sento di spingervi al suicidio, in questo modo così poco onorevole, per una cosa che, tutto sommato, ormai è andata via dal mondo, partita per lidi extra planetari, in cerca di terre più fertili di questa. Incendi di silenzi e di incomunicabilità hanno arso i campi terrestri, abbiamo ancora tutta la cenere tra i capelli e negli occhi. A guardarci bene, sembriamo puliti, non ci vuole niente, in fondo, a riempire una vasca da bagno e ad entrarci dentro, difficile è non uscirne comunque sporchi, ma non è un problema, la catarsi è solo una formalità, è chiudersi alle spalle una porta, e andare via, girare una chiave nella toppa, nasconderla dentro un vaso, e andare via, senza negarsi la possibilità di tornare, magari, ma sapendo di non esserci fino a quel momento, senza sentirsi minimamente in dovere di farlo, stare con la coscienza apposto, insomma. Come? Così.
Ciao, a presto.
E mi guardate tutti con quell' aria compassionevole, tutti a pensare che tanto sarebbe finita male, per una come me, prima o poi. In qualche modo che non so ci siamo tutti convinti che niente vale la pena, per nessuno, non è pensabile avere ancora delle energie da spendere per coltivare un rapporto affettivo sincero, gratuito, stiamo bene da soli, cani che siamo, con le nostre velleità artistiche mediocri e i nostri ragionamenti cervellotici e vanesi.
E stiamo tutti bene nella nostra sporcizia, nella nostra putrida ipocrisia, stiamo tutti bene quando si tratta di tornare agli uteri e di generare temporaneamente ibridi di uomini, ma poi è importante, anzi no, fondamentale, che ognuno se ne torni a casa propria, senza dire una parola, senza neanche osare avvicinarsi all' altro, tempia contro tempia, mano contro mano, spalla contro spalla. È una mescolanza che non piace, è una responsabilità, è una scelta, è una maledetta, tremenda scelta. Che non porta mai al risultato sperato, perché ci hanno cresciuto con la convinzione che quel che ci fa stare bene deve essere soltanto bene, e non bisogna far altro che fuggire dal male, qualunque esso sia. Solo che non ci hanno avvertito di un fatto importante, e cioè che il male ci insegue dappertutto, si annida in ogni cosa, il male è dentro di noi tanto quanto il bene, e ci segue nelle decisioni, nelle cose, ci aggancia e non ci lascia più, è sempre pronto a ricordarci quanto siamo poco riconoscenti alla vita, ed è un bene che da questo gioco di opposti poi nasca qualcos' altro, quel che non è un bene è che nessuno vuole più giocare così, ma arraffare a tentoni e senza neanche alzarsi dalla sedia soltanto il buono di ogni cosa, e poi metterselo in tasca, e girare la faccia dall' altra parte.
Una stanchezza collosa corrode ogni centimetro del mio spirito, ed ogni volta ricominciare è più difficile, armarsi è più complesso, resistere è più un atto di coraggio che di lealtà verso se stessi.
Potrei dirvi che la soluzione a tutto questo è amare, amare senza limiti e senza misure, ma non mi sento di spingervi al suicidio, in questo modo così poco onorevole, per una cosa che, tutto sommato, ormai è andata via dal mondo, partita per lidi extra planetari, in cerca di terre più fertili di questa. Incendi di silenzi e di incomunicabilità hanno arso i campi terrestri, abbiamo ancora tutta la cenere tra i capelli e negli occhi. A guardarci bene, sembriamo puliti, non ci vuole niente, in fondo, a riempire una vasca da bagno e ad entrarci dentro, difficile è non uscirne comunque sporchi, ma non è un problema, la catarsi è solo una formalità, è chiudersi alle spalle una porta, e andare via, girare una chiave nella toppa, nasconderla dentro un vaso, e andare via, senza negarsi la possibilità di tornare, magari, ma sapendo di non esserci fino a quel momento, senza sentirsi minimamente in dovere di farlo, stare con la coscienza apposto, insomma. Come? Così.
Ciao, a presto.
giovedì 12 settembre 2013
Oltre la notte.
Stanotte non abbiamo dormito, ci siamo rigirati tutti nei nostri letti, tra le strade, ci siamo rotolati nel sudore dell' attesa, dello sforzo immane di afferrare qualcosa che è distante, i muri che non si abbattono e ci circondano, tutta quella polvere che si alza dopo un crollo e che ci intasa i polmoni, stanotte eravamo tutti vigili ad aspettare che spegnessero anche gli ultimi lampioni, finché tutto è tornato ad essere quel che è sempre stato, buio eterno, oltraggio della vita, tenebra profonda, contrario della luce. Allora ci siamo guardati intorno, tutti quanti, stanotte, e per un attimo eravamo tutti lì, ad un centimetro di distanza gli uni dagli altri, nella profondità estrema di noi stessi, e abbiamo scoperto senza saperlo che le nostre non sono anime separate, ma proveniamo tutti da una sola ed unica anima, l' anima mundi, che ci tiene lontani anche se vicinissimi, ed io sentivo il tuo respiro sul mio collo, e tu sentivi il mio, non si è mai soli nel tormento, ma il cielo ha deciso di morire, di spegnersi, e allora mi sono chiesta, guardandovi tutti senza vedervi gli occhi, se abbiamo capito che possiamo vivere da soli, che possiamo sopravvivere, insomma, dico, ora che abbiamo dimostrato a noi stessi che siamo esseri indipendenti, capaci di creare dal niente, dalla solitudine, ora che abbiamo rinfocato il nostro orgoglio, ora possiamo smetterla di farci del male? Possiamo tenerci per mano senza sentirci posseduti, dominati, controllati, ma soltanto complici? Soltanto protagonisti di un' idea di condivisione? Possiamo afferrare l' esistenza per le spalle, scuoterla, e prenderci quello che cade dalle sue tasche? Adesso che i nostri libri, le nostre melodie, le nostre intuizioni sono lì, possiamo cominciare a fare le persone adulte? Possiamo crescere?
Avanzando nell' insonnia mi chiedo come si possa restare così sordi e così ciechi di fronte a delle forze così trascinanti, di fronte a delle ovvietà che per anni ci siamo negati, vengono fuori ad una ad una le cose, di notte, si arrampicano lungo le pareti dell' anima e vengono a bussarci in gola: le vomitiamo e poi è un fiume in piena di fango, e tutti ci preoccupiamo di preservare qualcosa che riteniamo essere prezioso e solo nostro, niente, non abbiamo niente, non siamo niente, granelli insignificanti nell' universo, quello che diamo è quello che abbiamo ricevuto, nasciamo come antenne che captano segnali, alcuni restano muti una vita intera, non sono veicolo di niente, tra noi e noi stessi non si frappone nessun ostacolo scomodo, quando sentiamo che una presenza ci carezza e ci tira via dallo specchio ossessivo in cui siamo proiettati, è allora che amiamo, l' amore è un dolce ritrovarsi di fronte alla verità, qualunque essa sia, siamo nudi di fronte alle persone che amiamo ed è come se fossimo nudi di fronte a noi stessi, perché l'altro siamo noi, si dice spesso in questi casi amore siamo una cosa cosa, ed è questo, amare è avere il coraggio di restare nudi di fronte a se stessi, senza che un riflesso ci rimandi un' immagine distorta e irreale di noi, un' immagine artificiale, che la nostra mente crea per farci sentire migliori, siamo i peggiori e siamo innamorati, e questo deve riempire le nostre esistenze, dobbiamo avere il coraggio di guardarci e di amarci amando, dobbiamo alzarci in piedi e a testa alta essere fieri di quello che siamo, anche se siamo ben poca cosa, ed è logico, perché non potremmo mai essere stati generati alla maniera del Dante o del Da Vinci o del Chopin, siamo piccoli déi del nostro personale Olimpo, e la maestosità del bello deve essere un' ideale a cui tendere, un binario entro cui incamminarci, senza fuggire la nostra ombra, troppo grande o troppo piccola a seconda della luce entro cui la guardiamo, senza rifugiarci in corpi putridi per l' idea di sentirci più puliti, e le notti che passiamo ad occhi aperti devono servire a questo, devono aiutarci a capire che il sonno e il riposo sono così preziosi, e il resto son tutte balle, perché quello che importa è che nel momento in cui il pensiero tende, la mano tenda insieme ad esso, e afferri quello che brami, ovunque si trovi. Ma nell' oscurità del ventre del mondo le nostre mani afferrano fantasmi di noi stessi, e gli uteri sono fatti di fumo, e i tentativi di tornarci sono inutili, ci stiamo spingendo a fatica dentro il vuoto, che è pure freddo oltre che assente, e allora impazziamo, perché senza rivederci nelle radici dei nostri alberi secolari, senza avvertire il contatto con gli ovuli del nostro passato originario, siamo solo schegge appuntite e folli, stelle morte che vagano nello spazio, l' amore è il contrario della morte, e quando questo attraversa spazi tempi cose persone altri amori corpi sentieri silenzi parole dipinti libri armonie cieli tersi e cieli plumbei puttane e strade schermi al plasma e letti comodi pensieri mutili sensi di inferiorità vendette apatie matite appuntite pupazzi su mensole occhi di bambini occhi di vecchi contrari sinonimi allora è il momento di alzarci dalla sedia, è il momento di partire, le braccia altrui attendono un segnale, il sé si veste, riempie la sua valigia di turbe e complessi, porta via qualche libro utile, e parte, parte, raggiunge l' estrema felicità, perché nell' estrema sofferenza il dito tocca il fondo dell' infelicità, e lentamente risale, c'è un punto piccolo piccolo dentro ognuno di noi dove il dolore si confonde col piacere, ed entrambi ci sembrano così necessari, ed entrambi sono complementari, e neanche pare siano concetti opposti, forse sono sempre stati uniti, come noi, fin dal principio, fin da quando negli uteri delle nostre madri ci cullavamo ignari e già insofferenti, indifesi e già armati.
“L' amore è la fine dell' assedio.”
Avanzando nell' insonnia mi chiedo come si possa restare così sordi e così ciechi di fronte a delle forze così trascinanti, di fronte a delle ovvietà che per anni ci siamo negati, vengono fuori ad una ad una le cose, di notte, si arrampicano lungo le pareti dell' anima e vengono a bussarci in gola: le vomitiamo e poi è un fiume in piena di fango, e tutti ci preoccupiamo di preservare qualcosa che riteniamo essere prezioso e solo nostro, niente, non abbiamo niente, non siamo niente, granelli insignificanti nell' universo, quello che diamo è quello che abbiamo ricevuto, nasciamo come antenne che captano segnali, alcuni restano muti una vita intera, non sono veicolo di niente, tra noi e noi stessi non si frappone nessun ostacolo scomodo, quando sentiamo che una presenza ci carezza e ci tira via dallo specchio ossessivo in cui siamo proiettati, è allora che amiamo, l' amore è un dolce ritrovarsi di fronte alla verità, qualunque essa sia, siamo nudi di fronte alle persone che amiamo ed è come se fossimo nudi di fronte a noi stessi, perché l'altro siamo noi, si dice spesso in questi casi amore siamo una cosa cosa, ed è questo, amare è avere il coraggio di restare nudi di fronte a se stessi, senza che un riflesso ci rimandi un' immagine distorta e irreale di noi, un' immagine artificiale, che la nostra mente crea per farci sentire migliori, siamo i peggiori e siamo innamorati, e questo deve riempire le nostre esistenze, dobbiamo avere il coraggio di guardarci e di amarci amando, dobbiamo alzarci in piedi e a testa alta essere fieri di quello che siamo, anche se siamo ben poca cosa, ed è logico, perché non potremmo mai essere stati generati alla maniera del Dante o del Da Vinci o del Chopin, siamo piccoli déi del nostro personale Olimpo, e la maestosità del bello deve essere un' ideale a cui tendere, un binario entro cui incamminarci, senza fuggire la nostra ombra, troppo grande o troppo piccola a seconda della luce entro cui la guardiamo, senza rifugiarci in corpi putridi per l' idea di sentirci più puliti, e le notti che passiamo ad occhi aperti devono servire a questo, devono aiutarci a capire che il sonno e il riposo sono così preziosi, e il resto son tutte balle, perché quello che importa è che nel momento in cui il pensiero tende, la mano tenda insieme ad esso, e afferri quello che brami, ovunque si trovi. Ma nell' oscurità del ventre del mondo le nostre mani afferrano fantasmi di noi stessi, e gli uteri sono fatti di fumo, e i tentativi di tornarci sono inutili, ci stiamo spingendo a fatica dentro il vuoto, che è pure freddo oltre che assente, e allora impazziamo, perché senza rivederci nelle radici dei nostri alberi secolari, senza avvertire il contatto con gli ovuli del nostro passato originario, siamo solo schegge appuntite e folli, stelle morte che vagano nello spazio, l' amore è il contrario della morte, e quando questo attraversa spazi tempi cose persone altri amori corpi sentieri silenzi parole dipinti libri armonie cieli tersi e cieli plumbei puttane e strade schermi al plasma e letti comodi pensieri mutili sensi di inferiorità vendette apatie matite appuntite pupazzi su mensole occhi di bambini occhi di vecchi contrari sinonimi allora è il momento di alzarci dalla sedia, è il momento di partire, le braccia altrui attendono un segnale, il sé si veste, riempie la sua valigia di turbe e complessi, porta via qualche libro utile, e parte, parte, raggiunge l' estrema felicità, perché nell' estrema sofferenza il dito tocca il fondo dell' infelicità, e lentamente risale, c'è un punto piccolo piccolo dentro ognuno di noi dove il dolore si confonde col piacere, ed entrambi ci sembrano così necessari, ed entrambi sono complementari, e neanche pare siano concetti opposti, forse sono sempre stati uniti, come noi, fin dal principio, fin da quando negli uteri delle nostre madri ci cullavamo ignari e già insofferenti, indifesi e già armati.
“L' amore è la fine dell' assedio.”
cogito ergo sum.
A cinque anni e tre mesi ho scritto la mia prima, banale poesiola.
Pochi mesi prima mio padre mi aveva regalato un abbecedario, con delle figure colorate molto accattivanti. Se mi giro e guardo in alto alla mia sinistra, lo vedo ancora lì, sulla mensola, che mi fissa come sedici anni fa.
A cinque anni e nove mesi ho cominciato la scuola, entusiasta come se dovessi salire all' altare.
Lì ci hanno insegnato le prime parole, che in parte conoscevo già. Il mondo mi sembrava meravigliosamente bello, raccontato con le parole.
Ci passavo le ore, insieme alle parole. Così arrivarono i primi temini in classe. I riassuntini. Le descrizioni. I 'caro diario'.
Le maestre erano entusiaste ed io ero incuriosita dal mio universo interiore.
A sette anni mi comperarono un giornalino di Hercules, nel quale vi era una pagina dedicata all' alfabeto greco, con il quale invitavano i lettori bambini a scrivere il proprio nome. Imparai tutto l' alfabeto greco.
Nel frattempo mi apprestavo a terminare le scuole elementari, e a chiedere in regalo i primi libri.
Non ricordo quale fu il primo libro che ho letto. Probabilmente 'Il giardino dei Finzi-Contini', del quale non capii un beneamato nulla.
Quando giocavo, ad otto anni, sola nella mia stanza, mi immaginavo maestra: correggevo i miei stessi quaderni ed inventavo appelli per singole classi.
Il tempo libero, durante le scuole medie, lo dedicavo ad annaffiare me stessa come una piantina preziosa: non so cosa mi spingesse a leggere così tanto, ad ascoltare così tanta musica e a scrivere così tanto. Forse l' emarginazione alla quale fui sottoposta mio malgrado dai miei compagni di classe ha giocato un ruolo non indifferente. O forse no. Nel dubbio, vi ringrazio, tutti. Per ogni singola lacrima e per ogni invito mancato.
Spesso entravo in libreria e chiudevo gli occhi: il cuore mi dirigeva verso uno scaffale a caso e il fiuto mi portava le dita su una copertina e su un nome che non avevo mai sentito prima.
A quindici anni le mani afferrarono Fernando Pessoa.
A quattordici, nel frattempo, mi ero innamorata. Uno di quegli amori limpidi, senza filtri, ingenui e sinceri fino alla distruzione del sé. Naturalmente la Letteratura amplificò questo mio sentimento fino a rendere la mia vita invivibile. Così scrissi un romanzo di centosessantatrè pagine per liberarmene.
Il Liceo Classico mi ha profondamente delusa.
Non mi ha fornito gli strumenti per affrontare le difficoltà della vita, e neanche quelli per assorbire decentemente le nozioni che quotidianamente proponeva. Lo studio era solo un mio personalissimo piacere morale. Anche se pensavo a molte cose, il mio tracciato interiore in tacito accordo con la mia mente mi proponeva come ovvia soluzione l' insegnamento e le Lettere Classiche.
A sedici anni ho cominciato a studiare la Filosofia. La prima cosa che mi ha insegnato la professoressa, è a cosa serve la Filosofia. Così, per evitare equivoci. Per evitare che gli studenti se ne chiedessero l' utilità in seguito o, peggio, strumentalizzassero le conoscenze filosofiche per piegarle ai propri percorsi mentali deviati. La Filosofia serve a vivere, signori miei. Ma non a vivere con la testa fra le nuvole, perduti nella confusione (Seneca userebbe qui il termine 'turba') dei pensieri altrui, no. Tutt' altro. Tutto il contrario, proprio. La Filosofia, guarda un po', ti insegna ad avere una Weltanschauung, ossia una tua visione del mondo, un binario entro cui indirizzare la tua anima affinché il tuo braccio si muova bene nel labirinto complicato dell' esistenza. Insomma, la Filosofia ti dice: “Devi trovare una collocazione in un ordine generale dell' Universo!”
A diciotto anni ho letto Freud e Jung, e ho capito che la mente umana è capace di creare creature abominevoli, e di operare in funzione di esse. Inizialmente mi sono spaventata, ed ho cominciato ad osservare in modo maniacale me stessa, i miei atteggiamenti. Quando ho capito che le nevrosi si riconoscono, si impara a tenerle sotto controllo, e poi le si lascia lì, come un segno distintivo, una cosa tua che fa di te ciò che sei, allora mi sono sentita a posto.
A diciannove anni ho capito che se ti senti inferiore, sei irrimediabilmente attratto da chi è irrimediabilmente più inferiore di te: manipolando e apparendo grandi di fronte ad una persona piccola, pur essendo oggettivamente piccolissimi si finisce per credersi dei giganti. E l' Ego si nutre di menzogne pur di gonfiarsi. Soffre, soffre incredibilmente sentendosi costretto ad ammettere i propri limiti. Fugge, vilmente fugge, chiunque gli appaia un tantino migliore di sé.
Al contrario, chi ha un Ego già abbastanza solido, va in cerca di chi gli è pari o superiore, per il desiderio inconscio di essere umiliato, dominato, poiché è una vita che domina, e non ne può più.
A vent' anni non ho capito un cazzo.
A ventuno ho avuto la Nausea.
Pochi mesi prima mio padre mi aveva regalato un abbecedario, con delle figure colorate molto accattivanti. Se mi giro e guardo in alto alla mia sinistra, lo vedo ancora lì, sulla mensola, che mi fissa come sedici anni fa.
A cinque anni e nove mesi ho cominciato la scuola, entusiasta come se dovessi salire all' altare.
Lì ci hanno insegnato le prime parole, che in parte conoscevo già. Il mondo mi sembrava meravigliosamente bello, raccontato con le parole.
Ci passavo le ore, insieme alle parole. Così arrivarono i primi temini in classe. I riassuntini. Le descrizioni. I 'caro diario'.
Le maestre erano entusiaste ed io ero incuriosita dal mio universo interiore.
A sette anni mi comperarono un giornalino di Hercules, nel quale vi era una pagina dedicata all' alfabeto greco, con il quale invitavano i lettori bambini a scrivere il proprio nome. Imparai tutto l' alfabeto greco.
Nel frattempo mi apprestavo a terminare le scuole elementari, e a chiedere in regalo i primi libri.
Non ricordo quale fu il primo libro che ho letto. Probabilmente 'Il giardino dei Finzi-Contini', del quale non capii un beneamato nulla.
Quando giocavo, ad otto anni, sola nella mia stanza, mi immaginavo maestra: correggevo i miei stessi quaderni ed inventavo appelli per singole classi.
Il tempo libero, durante le scuole medie, lo dedicavo ad annaffiare me stessa come una piantina preziosa: non so cosa mi spingesse a leggere così tanto, ad ascoltare così tanta musica e a scrivere così tanto. Forse l' emarginazione alla quale fui sottoposta mio malgrado dai miei compagni di classe ha giocato un ruolo non indifferente. O forse no. Nel dubbio, vi ringrazio, tutti. Per ogni singola lacrima e per ogni invito mancato.
Spesso entravo in libreria e chiudevo gli occhi: il cuore mi dirigeva verso uno scaffale a caso e il fiuto mi portava le dita su una copertina e su un nome che non avevo mai sentito prima.
A quindici anni le mani afferrarono Fernando Pessoa.
A quattordici, nel frattempo, mi ero innamorata. Uno di quegli amori limpidi, senza filtri, ingenui e sinceri fino alla distruzione del sé. Naturalmente la Letteratura amplificò questo mio sentimento fino a rendere la mia vita invivibile. Così scrissi un romanzo di centosessantatrè pagine per liberarmene.
Il Liceo Classico mi ha profondamente delusa.
Non mi ha fornito gli strumenti per affrontare le difficoltà della vita, e neanche quelli per assorbire decentemente le nozioni che quotidianamente proponeva. Lo studio era solo un mio personalissimo piacere morale. Anche se pensavo a molte cose, il mio tracciato interiore in tacito accordo con la mia mente mi proponeva come ovvia soluzione l' insegnamento e le Lettere Classiche.
A sedici anni ho cominciato a studiare la Filosofia. La prima cosa che mi ha insegnato la professoressa, è a cosa serve la Filosofia. Così, per evitare equivoci. Per evitare che gli studenti se ne chiedessero l' utilità in seguito o, peggio, strumentalizzassero le conoscenze filosofiche per piegarle ai propri percorsi mentali deviati. La Filosofia serve a vivere, signori miei. Ma non a vivere con la testa fra le nuvole, perduti nella confusione (Seneca userebbe qui il termine 'turba') dei pensieri altrui, no. Tutt' altro. Tutto il contrario, proprio. La Filosofia, guarda un po', ti insegna ad avere una Weltanschauung, ossia una tua visione del mondo, un binario entro cui indirizzare la tua anima affinché il tuo braccio si muova bene nel labirinto complicato dell' esistenza. Insomma, la Filosofia ti dice: “Devi trovare una collocazione in un ordine generale dell' Universo!”
A diciotto anni ho letto Freud e Jung, e ho capito che la mente umana è capace di creare creature abominevoli, e di operare in funzione di esse. Inizialmente mi sono spaventata, ed ho cominciato ad osservare in modo maniacale me stessa, i miei atteggiamenti. Quando ho capito che le nevrosi si riconoscono, si impara a tenerle sotto controllo, e poi le si lascia lì, come un segno distintivo, una cosa tua che fa di te ciò che sei, allora mi sono sentita a posto.
A diciannove anni ho capito che se ti senti inferiore, sei irrimediabilmente attratto da chi è irrimediabilmente più inferiore di te: manipolando e apparendo grandi di fronte ad una persona piccola, pur essendo oggettivamente piccolissimi si finisce per credersi dei giganti. E l' Ego si nutre di menzogne pur di gonfiarsi. Soffre, soffre incredibilmente sentendosi costretto ad ammettere i propri limiti. Fugge, vilmente fugge, chiunque gli appaia un tantino migliore di sé.
Al contrario, chi ha un Ego già abbastanza solido, va in cerca di chi gli è pari o superiore, per il desiderio inconscio di essere umiliato, dominato, poiché è una vita che domina, e non ne può più.
A vent' anni non ho capito un cazzo.
A ventuno ho avuto la Nausea.
domenica 1 settembre 2013
Sordomuti.
“Quanto costa diventare muti in un paese (mondo) di sordi?”
Costa poco, molto poco, direi che è quasi una conseguenza naturale, un modo per salvarsi dalla follia o dal fallimento, dall' abdicazione, è l' autoconservazione che ci allontana dalla verità, ci manipola, ci porta verso lidi sconosciuti e disabitati che mai avremmo pensato di abitare. Uno di questi è il lido del silenzio e dell' indifferenza: ma forse crescere significa proprio questo, migliorare la propria capacità di ignorare le cose del mondo, uno strato spesso di abnegazione che ci spinge a guardare in faccia il brutto e a proseguire dritto, senza sconvolgimenti e senza moti dell' animo. Sento il rombo di un motore trapassarmi il timpano e scuotermi lo spirito in maniera spiacevole, ma non mi fermo, continuo a camminare, a falciare pezzi di strada, cogliendo con gli occhi la sporcizia di questo mio paese e non provandone più disgusto, ma soltanto indefinitezza, come se tutte le cose fossero lì per un motivo che non mi interessa più, che non ci interessa più: e tu apri la bocca e pronunci parole, e per me è come assenza di suono, anzi, non è come, è proprio così, è reale incapacità di ascoltare, poiché tu che mi stai di fronte non stai parlando, in effetti, stai creando soltanto un po' di inquinamento, ma è un piccolo contributo nell' immensità dello sporco e dell' inutile, e quindi neanche si nota.
Dopotutto cambiamo, siamo tutti cambiati. Chi non cambia, non è. Siamo tutti cambiati, tu mi hai cambiato, io ti ho cambiato. Carezzare il tuo viso mi ha cambiato, ti ha cambiato. Ferirti a morte mi ha cambiato, ti ha cambiato. Li vedi questi sorrisi da fotografia, da momento perfetto, beh, ora sono spenti, spariti: non sono più sugli stessi visi, sono volati altrove, li indossa qualcun altro, e a noi adesso tocca indossare qualcos' altro, non siamo più quelli che eravamo, cambiamo, siamo tutti cambiati.
Cerchiamo qualcosa per cui valga la pena, ma ci accorgiamo che niente vale la pena, e tutto è ogni cosa tranne che necessario, aneliamo alla perfezione perché siamo esseri imperfetti e incapaci di gestire una difficoltà, abbiamo la pancia piena di zucchero e l' amaro ci pare immeritato, e allora diamo immediatamente inizio all' epopea, al gran ritiro; tutti i ritorni vigliacchi ai nostri punti di partenza sono mostri tremanti e impauriti che dalle nostre stanzette umide puntano il dito contro il sangue che non abbiamo buttato e il sudore che non abbiamo prodotto per conquistare qualcosa che poteva essere veramente prezioso. Preservare il prezioso e il bello devono essere oggi doveri morali dell' uomo. Devono assumere un senso definito, IL senso. Altrimenti possiamo trascorrere tutta la vita sulle nostre mediocri scialuppe in mezzo al mare in tempesta nell' attesa spasmodica di morire annegati, perché è quello che vogliamo, in fondo, tutti. Morire. E non lasciare traccia, per evitare che pure la nostra ombra venga rincorsa dalle leggi della natura e dell' uomo. Vogliamo fuggire, e vogliamo farlo senza stile, perché l'eleganza è un dettaglio nella resa, figuriamoci nella battaglia, se battaglia si può chiamare il tentativo flebile di ottenere tutto senza fare assolutamente niente.
E allora si dice che è Nausea quella che ci sale in gola, e ci brucia come succo gastrico andato a male, si dice che è ricerca, si dice che fa bene, ma un tormento senza scampo e senza fine è un modo vile per ritirarsi dalle scene senza ammettere di essere vili, una viltà della viltà, e allora prendiamoci tutti per mano e andiamocene, domani è lontano e ieri lontanissimo, oggi non esiste, è tutto un limbo dove ci piace restare appollaiati a fingerci pensatori, e cari miei è così ovvio, perché agire costa, e le energie sono poche, soltanto i pazzi le disperdono tutte al vento senza esserne gelosi, e senza ragionare sul fatto che poi, senza energie, è impossibile vivere, e appena sostenibile sopravvivere. E quindi basta, basta lamentarsi di ogni cosa, la scuola che non funziona, l' amore che non esiste, i genitori che non sanno educare adeguatamente i loro figli, che non ci sanno educare solo perché non si comportano come noi ci aspettiamo che facciano, sempre perché siamo dominati da un egocentrismo di dimensioni spropositate, presi da noi stessi in maniera maniacale, animali feroci che avvertono la presenza dell' altro come un pericolo e aborriscono l'idea di dedicare tempo altrui, non ascoltiamo nessuno, non vogliamo davvero bene a nessuno, non ce ne frega assolutamente niente di nessuno se non di noi stessi, amare è attentare alla nostra libertà personale, di cui poi fondamentalmente non ce ne facciamo un beato cazzo se non la condividiamo, ma questo poi lo capiamo troppo tardi, e tutto sfuma, di nuovo, inafferrabile, lontano.
Con tali premesse mi chiedo dove crediamo di andare, come pensiamo di poter cambiare le cose, di poterle migliorare, mi chiedo cosa intendono oggi le persone che parlano di 'miglioramento', mi chiedo se sanno che la radice greco-italica del termine migliore, che è màl, significa nient' altro che 'forte, valente', mi chiedo come si possa concepire un miglioramento se le menti che ci lavorano sono tutt' altro che temprate, pronte al lavoro duro del giorno dopo giorno, coraggiose. Mi sembra che pure le parole ci stiano abbandonando, mi sembra che tutto stia per implodere, da un momento all' altro, e io voglio fuggire via da tutto questo con le mie parole, andarmene sull' isola delle etimologie, risalire così all' origine delle cose e ai suoi concetti primigeni, per stringerne il senso e sentirmi al sicuro.
Poi mi dico che scappare non è la soluzione. Chi vuole migliorare non scappa, perché è forte, valente. Perché ha lo spessore morale e la determinazione di stringere i denti, di attendere, di lavorare attraverso le minuzie accumulando faticosamente piccole vittorie quotidiane sentendosi poi sufficientemente appagato e sufficientemente non soddisfatto da riuscire ad andare avanti con altrettanta fame e altrettanta voglia di lottare senza arrendersi.
E io voglio provarci, a migliorare.
Costa poco, molto poco, direi che è quasi una conseguenza naturale, un modo per salvarsi dalla follia o dal fallimento, dall' abdicazione, è l' autoconservazione che ci allontana dalla verità, ci manipola, ci porta verso lidi sconosciuti e disabitati che mai avremmo pensato di abitare. Uno di questi è il lido del silenzio e dell' indifferenza: ma forse crescere significa proprio questo, migliorare la propria capacità di ignorare le cose del mondo, uno strato spesso di abnegazione che ci spinge a guardare in faccia il brutto e a proseguire dritto, senza sconvolgimenti e senza moti dell' animo. Sento il rombo di un motore trapassarmi il timpano e scuotermi lo spirito in maniera spiacevole, ma non mi fermo, continuo a camminare, a falciare pezzi di strada, cogliendo con gli occhi la sporcizia di questo mio paese e non provandone più disgusto, ma soltanto indefinitezza, come se tutte le cose fossero lì per un motivo che non mi interessa più, che non ci interessa più: e tu apri la bocca e pronunci parole, e per me è come assenza di suono, anzi, non è come, è proprio così, è reale incapacità di ascoltare, poiché tu che mi stai di fronte non stai parlando, in effetti, stai creando soltanto un po' di inquinamento, ma è un piccolo contributo nell' immensità dello sporco e dell' inutile, e quindi neanche si nota.
Dopotutto cambiamo, siamo tutti cambiati. Chi non cambia, non è. Siamo tutti cambiati, tu mi hai cambiato, io ti ho cambiato. Carezzare il tuo viso mi ha cambiato, ti ha cambiato. Ferirti a morte mi ha cambiato, ti ha cambiato. Li vedi questi sorrisi da fotografia, da momento perfetto, beh, ora sono spenti, spariti: non sono più sugli stessi visi, sono volati altrove, li indossa qualcun altro, e a noi adesso tocca indossare qualcos' altro, non siamo più quelli che eravamo, cambiamo, siamo tutti cambiati.
Cerchiamo qualcosa per cui valga la pena, ma ci accorgiamo che niente vale la pena, e tutto è ogni cosa tranne che necessario, aneliamo alla perfezione perché siamo esseri imperfetti e incapaci di gestire una difficoltà, abbiamo la pancia piena di zucchero e l' amaro ci pare immeritato, e allora diamo immediatamente inizio all' epopea, al gran ritiro; tutti i ritorni vigliacchi ai nostri punti di partenza sono mostri tremanti e impauriti che dalle nostre stanzette umide puntano il dito contro il sangue che non abbiamo buttato e il sudore che non abbiamo prodotto per conquistare qualcosa che poteva essere veramente prezioso. Preservare il prezioso e il bello devono essere oggi doveri morali dell' uomo. Devono assumere un senso definito, IL senso. Altrimenti possiamo trascorrere tutta la vita sulle nostre mediocri scialuppe in mezzo al mare in tempesta nell' attesa spasmodica di morire annegati, perché è quello che vogliamo, in fondo, tutti. Morire. E non lasciare traccia, per evitare che pure la nostra ombra venga rincorsa dalle leggi della natura e dell' uomo. Vogliamo fuggire, e vogliamo farlo senza stile, perché l'eleganza è un dettaglio nella resa, figuriamoci nella battaglia, se battaglia si può chiamare il tentativo flebile di ottenere tutto senza fare assolutamente niente.
E allora si dice che è Nausea quella che ci sale in gola, e ci brucia come succo gastrico andato a male, si dice che è ricerca, si dice che fa bene, ma un tormento senza scampo e senza fine è un modo vile per ritirarsi dalle scene senza ammettere di essere vili, una viltà della viltà, e allora prendiamoci tutti per mano e andiamocene, domani è lontano e ieri lontanissimo, oggi non esiste, è tutto un limbo dove ci piace restare appollaiati a fingerci pensatori, e cari miei è così ovvio, perché agire costa, e le energie sono poche, soltanto i pazzi le disperdono tutte al vento senza esserne gelosi, e senza ragionare sul fatto che poi, senza energie, è impossibile vivere, e appena sostenibile sopravvivere. E quindi basta, basta lamentarsi di ogni cosa, la scuola che non funziona, l' amore che non esiste, i genitori che non sanno educare adeguatamente i loro figli, che non ci sanno educare solo perché non si comportano come noi ci aspettiamo che facciano, sempre perché siamo dominati da un egocentrismo di dimensioni spropositate, presi da noi stessi in maniera maniacale, animali feroci che avvertono la presenza dell' altro come un pericolo e aborriscono l'idea di dedicare tempo altrui, non ascoltiamo nessuno, non vogliamo davvero bene a nessuno, non ce ne frega assolutamente niente di nessuno se non di noi stessi, amare è attentare alla nostra libertà personale, di cui poi fondamentalmente non ce ne facciamo un beato cazzo se non la condividiamo, ma questo poi lo capiamo troppo tardi, e tutto sfuma, di nuovo, inafferrabile, lontano.
Con tali premesse mi chiedo dove crediamo di andare, come pensiamo di poter cambiare le cose, di poterle migliorare, mi chiedo cosa intendono oggi le persone che parlano di 'miglioramento', mi chiedo se sanno che la radice greco-italica del termine migliore, che è màl, significa nient' altro che 'forte, valente', mi chiedo come si possa concepire un miglioramento se le menti che ci lavorano sono tutt' altro che temprate, pronte al lavoro duro del giorno dopo giorno, coraggiose. Mi sembra che pure le parole ci stiano abbandonando, mi sembra che tutto stia per implodere, da un momento all' altro, e io voglio fuggire via da tutto questo con le mie parole, andarmene sull' isola delle etimologie, risalire così all' origine delle cose e ai suoi concetti primigeni, per stringerne il senso e sentirmi al sicuro.
Poi mi dico che scappare non è la soluzione. Chi vuole migliorare non scappa, perché è forte, valente. Perché ha lo spessore morale e la determinazione di stringere i denti, di attendere, di lavorare attraverso le minuzie accumulando faticosamente piccole vittorie quotidiane sentendosi poi sufficientemente appagato e sufficientemente non soddisfatto da riuscire ad andare avanti con altrettanta fame e altrettanta voglia di lottare senza arrendersi.
E io voglio provarci, a migliorare.
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