Vettriano

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sabato 24 agosto 2013

Lettera aperta ad una donna che aspetta alla stazione.

La mia vita è spezzata, come una matita nel momento di più bieco furore.
E ora guardo i due pezzi di legno giacere sul tavolo, carichi delle loro schegge, irregolari nella loro forma, con una mina dispersa, polverizzata, che percorre a semicerchio la superficie della scrivania.
Cara ragazza che stavi alla stazione, l' innamorato è sempre quello che aspetta, Barthes insegna. E tu aspettavi, e piangevi, e sono passate due ore. Hai aspettato per due ore qualcuno che non è venuto, e forse continui a farlo, giù, in strada, mentre la notte va, ed io mi ritiro nella mia stanza silenziosa.
Avrei voluto chiederti se avevi bisogno di aiuto, dirti che era bene che piangessi tutte quelle lacrime, perché il dramma reale è di chi le lacrime se le tiene dentro, creando un' inondazione dell' anima, allagando se stesso. Perché piove sempre da qualche parte. Il cielo può essere di un azzurro spiazzante, e il suo sorriso meraviglioso, ma stai certa che sta pur piovendo da qualche parte. E se è proprio dentro a piovere, allora trova un modo per uscirne. Per uscire da te stessa, dico. Vattene via. Salvati, e lascia che il tuo corpo muoia affogato dal suo stesso dolore. E' così che io vedo il mio. Sono uscita da me e mi sono arroccata da qualche parte sulla punta dei miei capelli sopra la mia testa. Da lì a gambe incrociate osservo tutto quello che succede al mio interno nel frattempo: le onde di sale travolgono organi e sbattono forte sul cuore, una risacca scorre tra le costole con un fruscio costante, e gridano disperate le vene sottopelle, poiché il sangue fuoriesce da qualche parte che non so, e diventa di un rosa pallido a contatto col mio pianto.
E lascio compiere a Dio questo ennesimo spreco di bellezza; lascio che la follia uccida l' amore che a sua volta uccide un uomo il quale ha ucciso me. E' tutto splendidamente regolare, tutto codificato nell' indecifrabilità dell' universo stesso, direi quasi prevedibile, perché poi abbiamo sempre questo brutto vizio di credere che ogni cosa orrenda e inaspettata accada a chiunque tranne che a noi stessi, e poi un giorno ti piomba addosso la verità, cruda e nuda come non lo è mai stata, con quel sapore di carne sanguinolenta e con quella brama di penetrarti lo spirito, fino a trapanarlo e a renderlo un pallido riflesso di ciò che era.
Mia cara ragazza che piangi e attendi un segnale, incamminati. La mente riesce a generare degli abomini fin troppo credibili, degli aborti di pensiero, degli escrementi di azione. Tutto questo senza che nulla riesca ad arginare la pioggia, a metter lo zucchero nelle lacrime. Nella profonda saggezza di un Dio che non ci guarda io vedo la banalità degli individui che siamo: riesco a trovare sollievo alle mie sofferenze soltanto pensando in termini universali. Incamminati, dicevo, non restare ferma in questa oscurità violata come un velo nero squarciato dal vento che da' sul nulla: potrebbe essere molto pericoloso restare fermi, potrebbero caderti in testa astri esasperati, e farti del male, perché più grossi, spigolosi e meno luminosi del consueto.
Io ho la testa fasciata, e le mie mani non hanno più le dita. Un tempo suonavo melodie traverse e facevo vibrare archi sconnessi, e per quanto facesse schifo la musica che componevo, era la mia, la mia musica. Il mio codice per leggere le cose dell' esistenza. Qualcuno, poi, nella gola della notte è entrato ed ha trovato i miei spartiti. Per furia e per insensatezza li ha portati via, in un luogo così sinistro che è proibito al pensiero immaginarlo, pena la pazzia. E io li ho persi. Ho perduto la mia casa, dal mio corpo è fuoriuscito tutto il marciume maleodorante che potessi concepire, fango e sputo hanno cementato una prigione di solitudine indicibile. Sono di nuovo, irrimediabilmente me stessa, mi guardo uscire dall' utero degenere di mia madre senza una ragione al mio destino di orfana, perdente e in minoranza dappertutto, sempre.

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