Vettriano

Vettriano

sabato 31 agosto 2013

Cercavo una puttana, ed ho trovato una puttana.

Il presente è un agglomerato di fantasmi passati e di illusioni future, il presente, laddove esiste, per me è questo: un groviglio di cose che sono già state e di cose che forse non saranno mai, viviamo un presente in assenza di noi stessi, un presente irrisolto, involuto, dove ci rifiutiamo di essere i protagonisti del nostro stesso dramma, non abbiamo più la presenza scenica di un tempo, siamo tutti gobbi e stanchi, ombre di quel che eravamo, e non ci conosciamo più, semmai ci fossimo conosciuti, fatti a brandelli dalle fiere di ieri che ci masticano e ci tengono tra i denti. Sentiamo ancora l' odore delle nostre carni in putrefazione, ma chi è che avverte la morte, chi può dire di essere certo di qualcosa, io no, no di certo, questo è il presente, un palcoscenico vuoto senza spettacoli in programmazione.

E' come quella puttana che incontro sempre, da anni, sui treni metropolitani. A metà tra l' assenza e la presenza, tra il trasparente e l' ingombrante, una figura vuota che non potrebbe essere più piena, sta a noi leggere quello che ha da offrire, due righe di dolore e tanta meccanica, i suoi capelli corvini, folti e disordinati, le scarpe sempre troppo alte, la gonna sempre troppo corta. Gli occhi sempre ambivalenti, splendenti e spenti, luci tetre e spettrali che fanno appena appena chiarezza negli angoli delle strade. Lei resta la stessa, io cambio. Lei due anni fa era seduta a tarda sera in quello scompartimento, immobile, seria, sostituita. Io ero in piedi e scoppiavo d' amore: la guardo, la fisso, resto in attesa di lei; non mi arriva nient' altro che tristezza. Dunque questa sensazione fortemente negativa arriva fino all' altezza del mio petto e mi restituisce un contraccolpo feroce: mi manca il respiro, la gioia massima e la massima sofferenza creano una trazione insopportabile. Lacrime calde e cremose mi salgono agli occhi, un conato mi spinge a cercare il cesso, ci entro, faccio per vomitare, non vomito, piango, bevo le mie lacrime, cerco di respirare forte. Parte la commiserazione, e tutta una serie di emozioni incalzanti che tendono al desiderio irrisolto di fare del bene a chi non è felice, per il solo fatto che se lo siamo noi ci pare insopportabile che esista chi non lo è. Tutti hanno un motivo per esserlo, o hanno il dovere morale di cercarne uno. Ti sbagliavi, cara Eleonora di un tempo, tutto è troppo dannatamente malato e lercio per riuscirci a trovare sempre e comunque una ragione lucida e brillante.

Due anni dopo, pochi giorni fa, ho rivisto questa stessa puttana, su un treno che tornava da Pompei, dove ero stata, da sola, senza neanche sapere perché. Succede che vuoi alzarti e vuoi prendere un treno e andare in un posto, senza nessuno che tenti di dissuaderti per mezzo di frasi fatte o cerchi di convincerti che la realtà è meglio di quella che si vede. Anche stavolta, dunque, resto tutto il tempo del breve viaggio a fissarla. Avverto forse uno scoraggiamento ancor maggiore provenire da quel corpo: settecentotrenta giorni e sono comparse delle rughe sul suo viso, all' altezza delle guance, e gli occhi sembrano di un marrone più opaco, come in una fotografia sfocata, d' altra parte le labbra sono più gonfie di rossetto e meno di carne, e il collo è pieno di macchie scure. I vestiti sono volgari quanto basta, ma messi a casaccio; si intravede il reggiseno di un colore inadeguato e c'è un buco nella gonna. I sandali sono pieni di polvere e il tacco sembra mangiucchiato. La borsa, sempre la stessa, nera, grossa, deforme, sembra contenere qualcosa di mostruoso, di viscido. Le mani sono aste di metallo piegate da una forza violenta, c'è anche del nero appena sotto le unghie. Vederla così, oggi, mi fa sentire a posto. Mi fa sentire beatamente indifferente. Sufficientemente desolata. Assolutamente malinconica, ma di una malinconia statica, di quelle che le cose ti scivolano addosso, che fosse sangue sconosciuto, o acqua bollente, la reazione sarebbe la stessa: nessuna. Vedo nei suoi occhi i miei occhi e non mi smuovo: parte un filo di niente e si collega, restiamo in contatto col niente di nulla, è una sensazione di rilassamento totale, un abbandono che sa di trasporto, il baratro che gli anni e le esperienze hanno scavato nell' anima e nel corpo di quella donna è oggi a me più comprensibile e più sopportabile, perché mi sono resa conto della sua inevitabilità. E non è un male, lasciarsi portare dalla corrente, se siamo stati condotti fin qui, è colpa mia, è colpa tua, è colpa della puttana per il suo aver scelto di fare la puttana, beh, questo è infinitamente relativo e evidentemente insignificante. Quello che importa è che ci hanno vuotato un secchio di merda in testa, e noi siamo rimasti impassibili. Non c'è più scontro di forze opposte e feroci, ma semplicemente incontro di non forze. E tutto, sopratutto il dolore, oggi è più dolce e quasi ci fa godere.

La prostituta scende dal treno, in questa stazione squallida di questo nostro squallido paese, ancora più squallido delle nostre espressioni, nell' ombra indecisa della sera, quando hai quasi paura che stia per fare di nuovo giorno anziché calare la notte. E se è vero che nessuno si salva da solo, nessuno si salva neanche in due, e di fronte a questa verità inappetibile il mondo fugge, e si cercano mille ragioni, mille diversivi, mille modi di dire la stessa identica cosa, e cioè che non abbiamo le palle per vivere davvero questa vita così com'è senza aspettarci nulla e senza aver paura di nulla, e cioè che non siamo in grado di imporci i nostri doveri e le nostre responsabilità, che siamo cani sciolti, pronti a scopare per le strade ma vergognosi di amare oltre ogni difficoltà, bestie vili che girano attorno alla propria coda pur sapendo che non è di nessun altro.

La prostituta scende dal treno, e anche io, e mentre lei perde temporaneamente una scarpa, io sbatto con la caviglia contro il gradino del sottopassaggio. Mi guardo scorrere qualche goccia di sangue e continuo a camminare nella sera che arriva, mentre lei mi resta alle spalle, ad allacciarsi il sandalo maldestramente e quasi contro voglia.

Non mi giro indietro.

Per me, il senso della vita, è tornare a casa di sera e trovarci una parte di me, messa al riparo, conservata, lasciata al caldo a riposare. Così, se anche dovessi perdermi nel caos del mondo, saprei che ritrovarmi, a fine giornata, è cosa facile e piacevole. E' autoconservazione, è romanticismo, è astuzia? Non lo so. Ma è il mio codice per leggere il mondo. E non lo cambierò, mai, anche se dovessi morire e dissolvermi prima di aver trovato lo scrigno giusto che possa custodirmi.
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sabato 24 agosto 2013

I regali di Natale.


"Il volere precede dunque ogni cosa: infatti le forze della ragione sono per natura ancelle del volere."


Te lo sei chiesto un sacco di volte, perché ai tuoi genitori il Natale non piacesse così come piaceva a te, da bambino. E per quanto volessi concentrarti sul trovare una spiegazione, in fondo non avevi tempo, c'erano dei giochi a cui dovevi prestare tutta la tua attenzione, e non c'era neanche un minuto da perdere.

Già, un minuto da perdere.

Quanti minuti perdiamo, adesso che il mondo ci definisce quasi adulti, sospesi nell' oblio di una condizione senza scampo e senza paura, che affrontiamo di petto come se volessimo vestirci col vessillo del nostro coraggio inesistente, che si scontra costantemente con la pochezza intellettuale dei luoghi e delle situazioni che ci stanno attorno. E' facile, in altri termini, fissare il vuoto per ore e fumare l' ennesima sigaretta, non c'è nulla di male nell' inazione, non c'è nulla di male. Riflettere fa bene, dicono. Dicono che le gambe poi ti fanno male se cammini troppo. E devi comunque fermarti per riprendere energie. Dunque, perché sprecarle queste energie? E in ogni caso, dov'è che sono queste energie? Io non ne ho più. Le ho consumate tutte per giocare coi regali di Natale.

Ci stiamo perdendo in un labirinto indistinto di cose da fare, e di cose da evitare. Come se ci avessero affidato tutti gli errori e tutte le chiavi delle prigioni mentali, possedimenti antichi delle passate generazioni, col compito di rimediare a tutto, di riprenderci la nostra e la loro libertà, a tutti i costi e con tutti i mezzi. E così strappiamo le nostre costruzioni sentimentali dopo averle arredate nel più piccolo particolare con un calcio impietoso. Perché è necessario dar sfogo alla propria istintualità repressa. Represso è una parola che non piaceva ai nostri genitori, quando avevano la nostra età. A noi non piace la parola rispetto, ad esempio. Sacrificio, responsabilità. Esistono universi fatti di negatività piena, abitati da persone che sono veramente stanche di vestire di stracci e di elemosinare virtù agli angoli dei cuori altrui. Rispetto, sacrificio, responsabilità. Trovarsi davanti ad una bestia immonda che riesce a succhiarti l' anima con un bacio in bocca e nello stesso tempo a strapparti gli organi con una lama affilata è diventato una specie di rito iniziatico, attraverso il quale tutti sembra dobbiamo passare prima o poi. Una sorta di battesimo del reale, tanto per evitare che qualcuno resti convinto fino alla fine della bellezza assoluta dell' esistenza e della purezza incontaminata della natura. Il male è dopotutto una costante da assaporare fino in fondo, poiché si porta dietro il fascino della morte. E tuttavia sono secoli che la morte appare più sensuale della vita per poi rivelarsi soltanto più anestetica.

Il bambino, dopo essersi annoiato dei suoi stessi giochi tanto bramati, sbatte e ribatte la testa contro il muro che lo rinchiude all' interno di una stanza dalle pareti bianche. Finché macchie indistinte di rosso non cominciano a disegnare strade di sangue da intraprendere. E allora tu, che sei seduto a fumare fuori al tuo balcone mediocre, spegni la tua sigaretta, e per non sentire il terrore che monta da dentro e stringe la gola ti alzi, per squarciare il velo dell' immobilità afosa, per conquistare un minimo di dignità agli occhi di te stesso, e te ne torni dentro, per continuare la tua passeggiata inutile dentro i viali dell' insensato.

Tocchi, tocchi tutte le cose che vedi, quando sei bambino. E se non le tocchi non ti si tolgono dalla testa, quelle cose, continuano ad ossessionare il tuo sonno e la tua veglia, finché poi per inesorabile natura acquisisci una serie di indispensabili esperienze secondo le quali dovresti vivere decentemente in nome di un codice personalissimo. Di quel codice, però, oggi noi non ce ne facciamo proprio niente. Resta una specie di bel quadro affisso in cameretta, un paesaggio di pastello da contemplare per evadere dal circostante. Una teoria. Maledetta pratica. Che ci porta ad esplorare lidi dei quali non avremmo mai potuto avere conoscenza. Nessuno legge e interpreta niente alla stessa maniera, se non contestualizza il suo testo. Badare al contorno è così faticoso che si preferisce afferrare alla cieca e altrettanto alla cieca possedere tutte le cose. Perché quello che conta è il momento. L' hic et nunc. Peccato che sia tutto un hic et nunc. Anche il futuro. Che invece diventa un losco individuo da evitare, roba da scappare solo a vederlo dal lontano.

Tutto il sangue che ho perso dalla testa ha disegnato sulle mie pareti luoghi che non vedrò mai. Se vengono dalla mia testa, mi dicevo, non possono che essere reali. Non sono stata io a disegnarli. Qualcuno me li avrà messi dentro. In attesa che li rivelassi a me stessa. Fosse stato così semplice. Fossi stata meno convinta.

...

Ed è vero che il nostro tempo è limitato che siamo di passaggio che la luce del sole dovrebbe darci un motivo validissimo per muovere i piedi sulla terra è vero anche che siamo malati però malati di questa stessa vita che qualcuno gioca a darci e poi a toglierci a strapparci dalle mani e forse è per immagine e somiglianza di questo dio crudele che ci facciamo del male godendone e non siamo più uomini ma siamo maiali e se ci sgozzassero adesso forse se le mani fossero quelle giuste non ci dispiacerebbe neanche in fondo durante tutto questo tempo non ho fatto che immaginare una vita che non avrò mai e tutta quella felicità dov'è che è andata a finire tutto l' entusiasmo dei regali di natale e tutta la voglia di dare all' altro quello che avevo e quello che non ho di inventarmi vesti migliori io non ne ho più mi fanno spostare gli arti tutta una serie di grovigli curiosi e un forte istinto all' autoconservazione come siamo attaccati alle cose dopotutto alla vita come siamo innamorati di tutte le cose che ci devastano siamo veramente malati di esistere.


Lettera aperta ad una donna che aspetta alla stazione.

La mia vita è spezzata, come una matita nel momento di più bieco furore.
E ora guardo i due pezzi di legno giacere sul tavolo, carichi delle loro schegge, irregolari nella loro forma, con una mina dispersa, polverizzata, che percorre a semicerchio la superficie della scrivania.
Cara ragazza che stavi alla stazione, l' innamorato è sempre quello che aspetta, Barthes insegna. E tu aspettavi, e piangevi, e sono passate due ore. Hai aspettato per due ore qualcuno che non è venuto, e forse continui a farlo, giù, in strada, mentre la notte va, ed io mi ritiro nella mia stanza silenziosa.
Avrei voluto chiederti se avevi bisogno di aiuto, dirti che era bene che piangessi tutte quelle lacrime, perché il dramma reale è di chi le lacrime se le tiene dentro, creando un' inondazione dell' anima, allagando se stesso. Perché piove sempre da qualche parte. Il cielo può essere di un azzurro spiazzante, e il suo sorriso meraviglioso, ma stai certa che sta pur piovendo da qualche parte. E se è proprio dentro a piovere, allora trova un modo per uscirne. Per uscire da te stessa, dico. Vattene via. Salvati, e lascia che il tuo corpo muoia affogato dal suo stesso dolore. E' così che io vedo il mio. Sono uscita da me e mi sono arroccata da qualche parte sulla punta dei miei capelli sopra la mia testa. Da lì a gambe incrociate osservo tutto quello che succede al mio interno nel frattempo: le onde di sale travolgono organi e sbattono forte sul cuore, una risacca scorre tra le costole con un fruscio costante, e gridano disperate le vene sottopelle, poiché il sangue fuoriesce da qualche parte che non so, e diventa di un rosa pallido a contatto col mio pianto.
E lascio compiere a Dio questo ennesimo spreco di bellezza; lascio che la follia uccida l' amore che a sua volta uccide un uomo il quale ha ucciso me. E' tutto splendidamente regolare, tutto codificato nell' indecifrabilità dell' universo stesso, direi quasi prevedibile, perché poi abbiamo sempre questo brutto vizio di credere che ogni cosa orrenda e inaspettata accada a chiunque tranne che a noi stessi, e poi un giorno ti piomba addosso la verità, cruda e nuda come non lo è mai stata, con quel sapore di carne sanguinolenta e con quella brama di penetrarti lo spirito, fino a trapanarlo e a renderlo un pallido riflesso di ciò che era.
Mia cara ragazza che piangi e attendi un segnale, incamminati. La mente riesce a generare degli abomini fin troppo credibili, degli aborti di pensiero, degli escrementi di azione. Tutto questo senza che nulla riesca ad arginare la pioggia, a metter lo zucchero nelle lacrime. Nella profonda saggezza di un Dio che non ci guarda io vedo la banalità degli individui che siamo: riesco a trovare sollievo alle mie sofferenze soltanto pensando in termini universali. Incamminati, dicevo, non restare ferma in questa oscurità violata come un velo nero squarciato dal vento che da' sul nulla: potrebbe essere molto pericoloso restare fermi, potrebbero caderti in testa astri esasperati, e farti del male, perché più grossi, spigolosi e meno luminosi del consueto.
Io ho la testa fasciata, e le mie mani non hanno più le dita. Un tempo suonavo melodie traverse e facevo vibrare archi sconnessi, e per quanto facesse schifo la musica che componevo, era la mia, la mia musica. Il mio codice per leggere le cose dell' esistenza. Qualcuno, poi, nella gola della notte è entrato ed ha trovato i miei spartiti. Per furia e per insensatezza li ha portati via, in un luogo così sinistro che è proibito al pensiero immaginarlo, pena la pazzia. E io li ho persi. Ho perduto la mia casa, dal mio corpo è fuoriuscito tutto il marciume maleodorante che potessi concepire, fango e sputo hanno cementato una prigione di solitudine indicibile. Sono di nuovo, irrimediabilmente me stessa, mi guardo uscire dall' utero degenere di mia madre senza una ragione al mio destino di orfana, perdente e in minoranza dappertutto, sempre.